La nota di Goffredo Palmerini sul nuovo libro di Fernando Rossi, uscito qualche giorno fa, 1848-1852 “I fatti di Paganica”
L’AQUILA – Riceviamo e pubblichiamo una nota di Goffredo Palmerini su i fatti avvenuti a Paganica tra il 1848 e il 1852, trattati in un libro di Fernando Rossi.
“Non sarà mai adeguato l’apprezzamento del lavoro prezioso che Fernando Rossi fa, arricchendo con le sue ricerche la conoscenza della storia civica, in particolare riguardante Paganica, paese dove è nato e vive. Che dire allora di questo suo nuovo volume “1848-1852 I fatti di Paganica”, fresco di stampa? Anzitutto che il libro mi ha intrigato sin dalle prime pagine, come può intrigare una storia di fatti prodromici del Risorgimento. Si tratta appunto dei primi moti in un paese dell’aquilano, nel Regno delle due Sicilie: il conflitto politico tra “realisti” e rivoluzionari di tendenze repubblicane – definiti con un termine assai colorito “riscaldati” e talvolta “sovversivi” -, fino a sfociare in campo giudiziario, con le indagini condotte dal Procuratore del Regno, quindi nel processo presso la Gran Corte Criminale dell’Aquila.
Non entrerò nel dettaglio delle vicende. Sarà bene lo faccia il lettore seguendo la linearità della narrazione, corredata dalla puntale citazione documentale che l’autore ha espunto dai preziosi fondi dell’Archivio di Stato dell’Aquila, faldone della Gran Corte Criminale “I fatti di Paganica”. Mi limiterò ad osservazioni di ordine generale – peraltro espresse in Prefazione al volume accanto all’interessante contributo di Giustino Parisse – prima di tutto sul valore e sulla forza inoppugnabile del “documento” nella trattazione di vicende storiche. Una forza, quella dei documenti, capace di controvertere supposizioni finora ritenute affidabili, come quella di ritenere che i moti risorgimentali fossero fenomeni riservati particolarmente alle élites intellettuali e ad una borghesia professionale evoluta, dove le classi popolari – braccianti, contadini, artigiani – avevano presenza, peso e ruolo del tutto marginali.
Questa storia, sebbene nella sua dimensione locale, consegna invece una verità del tutto diversa, laddove dei 62 imputati nel procedimento giudiziario almeno 44 sono di estrazione popolare, 4 sono sacerdoti, gli altri sono proprietari terrieri, borghesia professionale e 4-5 di antiche famiglie blasonate o quasi (Dragonetti, Antonelli, Volpe, Vicentini). Dunque quasi due terzi degli attori di quelle vicende, iniziate nel 1848 e approdate nel luglio 1849 in un procedimento giudiziario dagli aspetti talvolta singolari, sono provenienti da classi popolari e, in entità davvero sorprendente dal clero, con ben 4 sacerdoti – e un Don Marco Arpea, parroco di Paganica, davvero focoso – quando solitamente si è portati a ritenere i preti, specie a quel tempo, con tendenze politiche conservatrici e piuttosto schierati con il potere costituito.
Molto mi ha colpito la figura dell’imputato Ludovico Iovenitti, un popolano, sarto di mestiere, che già si era fatti diversi anni di reclusione, per fatti insurrezionali precedenti, nel terribile carcere di Ventotene, da dove un paio di condannati nel suo stesso processo non sarebbero usciti vivi. In tutta questa vicenda Ludovico Iovenitti risalta per dignità e linearità di comportamento processuale. Lo voglio citare come una figura esemplare. Contrariamente ad altri comportamenti di taluni imputati e ancor più di tutti coloro – “realisti” accusatori e talvolta di testimoni – che quelle vicende contrassegnarono con delazioni, esposti e contro-esposti, insinuazioni squallide e quanto di peggio può uscire da una comunità fortemente divisa e contrapposta, lacerata dall’odio e dal rancore, malata di invidie e gelosie, ottenebrata dalla cattiveria. Uno squallore che non poteva trarre ragione dalla differenza di visione politica, tra i lealisti ai regnanti borbonici e chi invece aspirava ad una monarchia veramente costituzionale o meglio ad una repubblica, così come Mazzini la preconizzava.
Lascio alla lettura dell’interessante volume la scoperta del procedimento d’indagine, assai lacunoso in verità, almeno all’inizio, con il rinvio a giudizio, il 7 aprile 1851, per 25 imputati, accusati dalla Gran Corte di reati politici riferiti alle rivolte del 1848-49. Quindi l’inizio del dibattimento, il 25 aprile 1851, l’arringa del Procuratore generale del Re tenuta il 30 aprile e la sentenza della Corte, con condanne che vanno dai 9 anni di detenzione (Giovanni Antonelli, Rodrigo De Paulis), 8 anni (Camillo Visca), 7 anni (Ascanio Vicentini, Isidoro Strina, Raffaele De Vecchis), tutti poi reclusi a Ventotene, ai 3 anni di prigionia (Achille Pieri, Giuseppantonio Tarquini, Nicola Visca, Natale Evangelista, Vincenzo Iovenitti, Giosuè Tarquini, Giacomo Mastracci, Francesco Piccirilli) e ad un anno di prigionia (Gioacchino Volpe, Isaia Tarquini, Domenico De Paulis, Giuseppe Perazza, Fabiano Crosta).
Assolti e rimessi in libertà Domenico Iovenitti, Giovanni Petricca, Cesare De Paulis, Luigi Cirilli e Tommaso Facchinei, mentre Ludovico Iovenitti restava recluso nel Carcere di San Domenico per consentire un supplemento d’istruttoria perché le testimonianze a suo carico e a suo discarico erano tali da far permanere il dubbio sulla sua colpevolezza. Sarà poi assolto.
Resta, per quanto ne ho tratto, un giudizio impietoso su quegli anni a Paganica. Non solo per quel che portò sul piano giudiziario, quanto per il comportamento sociale e morale della comunità paganichese latamente intesa. In fin dei conti non si viveva un buon clima in quegli anni a Paganica, anzi il clima era decisamente pessimo. Ai nostri occhi appare tutta la devastazione di una comunità che non avremmo mai immaginato, se non avessimo potuto averne contezza attraverso queste pagine illuminanti. Un clima che conoscerà qualcosa di simile, rispetto ai comportamenti sociali e morali, solo durante gli anni del regime fascista. Vanno giudicate con severità queste vicende, certamente, ma è la nostra storia, la storia di quegli anni della comunità paganichese. Una storia che dovrebbe – mutatis mutandis – anche oggi ammaestrare sul danno che comportano alla comunità le divisioni alimentate da sentimenti “altri” rispetto al sano confronto politico, anche contrassegnato dalla durezza. Una democrazia matura, però, dovrebbe sempre saper ricercare una sintesi per il bene comune. Ma questa è storia controversa anche ai giorni nostri, purtroppo!”.