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A Pescara torna Barbareschi con: “Il Discorso del Re”

da Redazione

PESCARA –  Torna a Pescara un grande interprete del teatro italiano, Luca Barbareschi, con uno dei lavori più attesi della Stagione: “Il discorso del Re“,che ha da poco debuttato con successo al Teatro Quirino di Roma. La messa in scena, per la regia dello stesso Barbareschi, segue di poco il bellissimo film di Tom Hooper, pluripremiato alla notte degli oscar 2011.

Lo spettacolo è  in programma al Teatro Circus di Pescara per Martedi 4 dicembre prossimo , alle ore ore 21 e  Mercoledi 5 dicembre  alle ore  17 e alle  ore 21.

Una commedia umana, sempre in perfetto equilibrio tra toni drammatici e leggerezza, ricca di ironia ma soffusa di malinconia, a tratti molto commovente, ma capace anche di far ridere. Sul palcoscenico Barbareschi sarà il logoterapista Lionel Logue e, al suo fianco un bravissimo Filippo Dini vestirà i panni di Bertie – Duca di York. Insieme a loro Astrid Meloni (Elizabeth – Duchessa di York), Chiara Claudi, Roberto Mantovani, Ruggero Cara, Mauro Santopietro e Giancarlo Previati.

Le scene, dal taglio cinematografico, sono curate da Massimiliano Nocente, le musiche sono di Marco Zurzolo. Regia di Luca Barbareschi.

La storiaLa commedia è ambientata in una Londra surreale, a cavallo tra gli anni 20 e 30, ed è centrata sulle vicende di Albert, secondogenito balbuziente del Re Giorgio V. Dopo la morte del padre, il timido e complessato duca di York non sarebbe dovuto salire al trono d’Inghilterra. Il primogenito era infatti Edoardo, che divenne sì re ma che, per amore di Wallis Simpson, abdicò neppure un anno dopo. A Bertie, o meglio ad Albert Frederick Arthur George Windsor, toccò il peso della corona diventando sovrano con il nome di Giorgio VI. Un uomo atipico che fu re molto amato dal popolo, legato da vero amore alla moglie: la volitiva Elisabetta Bowes-Lyon, e che si portava appresso un fardello di costrizioni infantili e un bisogno di affetto difficili da trovare nell’anaffettiva coppia di genitori regali. Un’insicurezza che si esprimeva attraverso una balbuzie invalidante e impossibile da gestire nei numerosi e imbarazzanti discorsi pubblici cui era tenuto. In più, Giorgio VI si trovava a essere la voce del e per il popolo britannico in un momento difficile della storia, alla vigilia del secondo conflitto mondiale. Ma che voce poteva essere o quale guida per il popolo? Così venne portato dalla moglie in visita dal logopedista australiano Lionel Logue, dai metodi anticonformisti, capace di sondare le anime e di medicarle, attore mancato per eccessiva enfasi, insegnò al Duca di York come superare l’incubo di parlare in pubblico. Logue pretese subito il “tu” dal reale e sottopose il futuro re ad una cura che attingendo al laboratorio teatrale quanto alla seduta psicanalitica gli permise di salire sul trono. Una commedia umana, sempre in perfetto equilibrio tra toni drammatici e leggerezze, ricca di ironia ma soffusa di malinconia, a tratti molto commovente, ma capace anche di far ridere. Non di risate grasse o prevedibili, ma di risate che nascono dal cervello e si trasmettono al cuore. Così come le lacrime non nascono da un intento ricattatorio ma dall’empatia, da una condivisione sentimentale di difficoltà umane. Il discorso del Re parte dai fatti storici per addentrarsi in un dramma personale, senza abbandonare mai la Storia, che non è sottofondo ma presenza imprescindibile di ogni istante della commedia al fianco dei protagonisti. Il film, del 2010, è stato pluripremiato alla notte degli oscar 2011. In origine nasce però come testo teatrale. Il discorso del Re sfrutta l’aspetto psicofisico della disarticolazione verbale per raccontare il rapporto tra il Paese colono e l’Impero per cui sacrifica i propri figli in guerra. E dimostra come aneddoti nascosti nelle pieghe della Storia possano elevarsi alla potenza dell’epica, se narrati con perizia e ritmo. Il merito è dello sceneggiatore David Seidler (Tucker. Un uomo e il suo sogno di Francis Ford Coppola), che nella sua vita ha sofferto di balbuzie.

Note di regia – Dopo aver portato in scena Il Gattopardo, ho sentito il bisogno di approfondire la capacità del teatro nell’interpretare e rappresentare la società, soprattutto in relazione alla descrizione e interpretazione che la drammaturgia riesce a dare del presente e della storia, come forma conoscitiva superiore alle altre, per dirla con Harold Bloom “un teatro-mondo”. Ha ispirato la mia riflessione un ritorno a Shakespeare, a quel 1603 che segna una svolta storica per il teatro inglese; salito al trono, Giacomo I promuove un nuovo impulso delle arti sceniche, avocando a sé la migliore compagnia dell’epoca. A Giacomo I, Shakespeare dedica alcune delle sue opere maggiori, scritte per l’ascesa al trono del sovrano scozzese, come Otello, Re Lear e Macbeth, la più breve e più compressa delle tragedie di Shakespeare. A differenza dell’introverso Amleto, il cui errore fatale è l’esitazione, gli eroi di queste tragedie come Otello e Re Lear furono sconfitti da affrettati errori di giudizio: le trame di queste opere fanno spesso perno su errori fatali, che sovvertono l’ordine e distruggono l’eroe e i suoi cari. Le tre ultime tragedie, che risentono della lezione di Amleto, sono drammi che restano aperti, senza ristabilire un ordine ma generando piuttosto ulteriori interrogativi. Ciò che conta non è l’esito finale, ma l’esperienza. Ciò a cui si dà maggiore importanza è l’esperienza catartica dell’azione scenica, piuttosto che la sua conclusione. Il salto al secolo scorso e alla nostra storia recente è possibile grazie all’opera di David Seidler.

“Il discorso del re” per me si inserisce in questo filone dove il teatro resta soprattutto un inno alla voce e all’importanza delle parole. La vicenda è ambientata nel XX secolo quando i mezzi di comunicazione di massa assumevano un’importanza capitale per il vivere quotidiano del cittadino, quando poche parole del Re via radio potevano donare un briciolo di rassicurazione alla povera gente, specie durante i conflitti bellici. Tutta la vicenda è costituita da una incessante partitura dialettica che ricorda la necessità di adoperare le giuste parole da parte del potere, e forse proprio in questa epoca storica è una lezione che andrebbe ripetuta sovente, anche perché una storia acquista maggior valore se tramandata ai posteri attraverso un persuasivo impianto oratorio. La commedia è ambientata in una Londra surreale, a cavallo tra gli anni 20 e 30, ed è centrata sulle vicende di Albert, secondogenito balbuziente del Re Giorgio V. Si parte dai fatti storici per addentrarsi in un dramma personale, senza abbandonare mai la Storia, che non è fondale sottofondo ma è presenza imprescindibile di ogni istante della commedia al fianco dei protagonisti. Recentemente ne è stato fatto un film di grande successo pluripremiato con gli oscar ma in origine nasce come testo teatrale. Il discorso del Re sfrutta l’aspetto psicofisico della disarticolazione verbale per raccontare il rapporto tra il Paese colono e l’Impero per cui sacrifica i propri figli in guerra e dimostra come aneddoti nascosti nelle pieghe della Storia possano elevarsi alla potenza dell’epica, se narrati con perizia e ritmo. Il merito è dello sceneggiatore David Seidler, che nella sua vita ha sofferto di balbuzie. Una commedia umana, sempre in perfetto equilibrio tra toni drammatici e leggerezze, ricca di ironia ma soffusa di malinconia, a tratti molto commovente, ma capace anche di far ridere. Non di risate grasse o prevedibili, ma di risate che nascono dal cervello e si trasmettono al cuore. Così come le lacrime non nascono da un intento ricattatorio ma dall’empatia, da una condivisione sentimentale di difficoltà umane. E’ una bellissima storia sul senso di responsabilità e sulla dignità del ruolo, anche quando tale ruolo non è atteso né desiderato, sulla solidarietà familiare e sulla forza di volontà che permette di superare ostacoli apparentemente insormontabili. Albert è il minore dei figli di Giorgio V e soffre di una pronunciata balbuzie, che è il lascito di un’infanzia poco amata, trascorsa nelle mani di una bambinaia che lo detesta, mortificata dall’imposizione di apparecchi ortopedici e dalla correzione del mancinismo.

La balbuzie lo rende poco adatto al suo ruolo istituzionale in un’epoca in cui la radio comincia a modificare i rapporti fra il potere ed il popolo comune. Forse perché la famiglia reale gli è sempre apparsa piuttosto una “ditta”, dopo una gioventù dissipata al traino del fratello maggiore brillante e gaudente, si è formato una famiglia basata sull’amore e la solidarietà con una donna che non aspira alle luci della ribalta, ma che sarà perfettamente in grado di sostenerlo nei momenti difficili e di assumersi lei stessa responsabilità più grandi del previsto. Proprio lei lo spinge, dopo numerosi tentativi falliti, a chiedere l’aiuto di un logopedista australiano dai modi inconsueti, con cui sviluppa un rapporto conflittuale che fa anche emergere da una parte la grande considerazione che Albert ha di sé e della sua posizione, dall’altra la possibilità che egli si trovi prima o poi a dover sostituire sul trono il fratello maggiore, invischiato in un amore sconveniente con una divorziata risposata e dal passato discutibile. La morte di Giorgio V rende più concreta questa possibilità che è però alto tradimento agli occhi di Albert. Il personaggio di Logue diventa il punto focale intorno a cui ruota il conflitto interiore di Albert. La scrittura del testo sottolinea il conflitto mostrandoci il logopedista, attore di scarso successo, ma appassionato scespiriano alle prese, sia come logopedista che come educatore e attore, con brani tratti non a caso dall’Amleto, dal Riccardo III e da La tempesta: tutte opere in cui un fratello minore non si preoccupa di commettere fratricidio per usurpare un trono a cui non aveva diritto. La rinuncia di Edoardo VIII al regno in nome del suo diritto ad amare, porta Albert sul trono e contrasta efficacemente con l’accettazione da parte di questi della responsabilità di essere la voce che deve tenere unita la Nazione alla vigilia della seconda guerra mondiale. Per tale responsabilità Albert è costretto a richiedere nuovamente l’opera del logopedista, ma alla vigilia dell’incoronazione scoppia una nuova crisi.

L’arcivescovo di Canterbury, geloso del credito che l’uomo riscuote presso il re, scopre che Logue, che non si è mai presentato come dottore, non è che un ex attore. Albert si sente tradito ma, in una scena memorabile, Logue, dignitoso e ironicamente irriverente si riguadagna la fiducia e la stima del re e lo accompagnerà fino al temuto discorso con cui Albert, ormai re Giorgio VI (Albert è nome troppo germanico per essere bene accetto nell’Inghilterra di quegli anni) annuncerà al suo popolo l’entrata in guerra guadagnandosi al tempo stesso il rispetto del governo e della nazione. David Seidler con questo testo riesce anche a sottolineare le differenze fra i fratelli e le rispettive famiglie: Albert cammina a piedi, entra con la moglie in un ascensore, si presenta in incognito nella casa del logopedista; Elizabeth, la futura regina madre, prende il the con la moglie di questi. David, per breve tempo Edoardo VIII, entra in scena scendendo da un aereo che pilota personalmente; alla morte del padre piange tra le braccia della madre, non per la perdita ma per il rischio di dover lasciare la sua vita leggera. Lo incontriamo poco dopo al centro di una festa, in cui lascia l’incarico di padrona di casa alla sua amante e dove risponde ai richiami del fratello con l’insinuazione che questi voglia il suo posto. E’ la vicenda umana della ricostruzione storica che rende perfettamente l’idea dei due modi di porsi di fronte al dovere ed al potere. Eccellente, preciso, determinante il peso che ha ciascun personaggio della commedia che oltre ai due protagonisti (Albert e Logue) riesce a rappresentare sapientemente il risvolto umano, psicologico, storico di tutti gli altri personaggi, la cura e la massima attenzione ai costumi ed alla scenografia renderanno a pieno la ricostruzione di tempi, ambienti ed atmosfere.

Luca Barbareschi

 

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