Il 16 luglio l’urna con le spoglie rientrerà da Pollenza nel Monastero di S. Chiara a Paganica. La clarissa fiorentina fu una figura rilevante nella storia spirituale del Quattrocento
L’AQUILA – Sono passati più di sei anni da quella terribile notte del 6 aprile 2009, quando il sisma devastò il Monastero delle Clarisse e il centro storico di Paganica, popolosa frazione a 9 chilometri dalla città capoluogo d’Abruzzo. Alle 3 e 32 crollò il tetto del monastero, proprio sopra le celle delle Sorelle claustrali. L’abbadessa Madre Maria Gemma Antonucci perì sotto le macerie. Ferite gravemente due Sorelle, le altre miracolosamente illese. Continuavano le scosse quel giorno e in seguito. Quel serpe s’agitò ancora per mesi, nel ventre della terra, massacrando L’Aquila e i paesi del circondario. Le Sorelle clarisse, con l’aiuto dei soccorritori e dei Vigili del Fuoco prontamente accorsi, messa in salvo l’urna con il corpo incorrotto della Beata Antonia da Firenze, che era custodita nella Chiesa del Carmine del complesso conventuale, raccolte le poche cose recuperabili, partirono per Pollenza, in provincia di Macerata, per essere temporaneamente accolte nel Monastero delle Clarisse. Lì la Beata Antonia è stata da allora custodita in sicurezza. Intanto, a qualche giorno dal sisma, lo slancio di solidarietà promosso da Tele Pace, avviò la generosa raccolta di fondi che permise, entro la chiusa murata del convento, la costruzione d’un piccolo monastero in legno dove le Clarisse, sotto la tenace guida dell’abbadessa Madre Rosa Maria Tufaro succeduta a Madre Gemma, fin dal dicembre 2009 hanno fortemente voluto rientrare. Qui dimorano ancora, in spazi assai ristretti, vivendo in preghiera, nel lavoro – tra l’altro, “scrivono” magnifiche icone -, in unione spirituale e solidale con tutto il territorio. Intanto, sul complesso conventuale imponenti lavori sono da due anni in corso e un altro anno ancora sarà necessario per portarli a termine, mentre la Soprintendenza ai Beni Culturali dell’Aquila ha già quasi completato un pregevole restauro dell’antica chiesetta di San Bartolomeo, annessa al Monastero, dove il 16 luglio l’urna della Beata Antonia verrà collocata, in attesa di poter rientrare nella Chiesa del Carmine, a restauro ultimato.
“Il rientro della Beata Antonia – dice Madre Rosa Maria – ci ricolma di gioia. Finalmente a casa perché le persone possano continuare a stare di fronte a lei che è madre che accoglie e ascolta, con la preghiera rimasta sempre viva nel corso dei secoli”. L’evento del rientro della Beata Antonia è di portata storica, perché ricompone un pezzo di memoria civile e spirituale dell’Aquila dopo il sisma del 2009 e per la devozione che gli Aquilani hanno sempre portato verso la loro Beata che, insieme a S. Bernardino da Siena, a S. Giovanni da Capestrano, al Beato Vincenzo dell’Aquila e al Beato Timoteo da Monticchio, forma quella schiera di Santi francescani che hanno tenuto viva nella città e nel suo territorio aquilano la sempre affascinante spiritualità di Francesco e Chiara d’Assisi. Un evento rilevante anche per la rinascita religiosa, per la stessa identità civica dell’Aquila. E per quel rafforzamento del senso di comunità che il terremoto ha messo a dura prova, che così potrà tornare ad alimentarsi con l’amore del popolo aquilano verso la Beata, mai attenuato anche in questi anni di assenza. Con grande trepidazione, dunque, s’attende il rientro della Beata Antonia nel suo Monastero di Paganica.
Un denso programma è previsto in preparazione dell’importante evento spirituale e civile. Presso il Monastero il 14 luglio, alle ore 18:30, una conferenza con P. Carlo Serri, Ministro Provinciale dell’Ordine dei Frati Minori d’Abruzzo, con la relazione “Dal mondo al chiostro: l’esodo francescano della Beata Antonia da Firenze”, e con la dr. Paola Poli, Responsabile archivio arcidiocesano dell’Aquila, con la relazione “Saper fiorire dove il Signore ci ha seminati. Il culto della Beata Antonia”. Il 15 luglio, alle ore 17, l’arrivo da Pollenza dell’urna della Beata Antonia presso la Chiesa degli Angeli Custodi di Paganica e alle ore 21 una Veglia di preghiera e Lectio divina con l’insigne biblista Rosalba Manes. Dalla mattina del 16 luglio e fino alle ore 18, animazione della preghiera da parte di gruppi, movimenti, associazioni laicali, ordini secolari della Diocesi. Alle 18 la partenza dalla Chiesa degli Angeli Custodi in processione verso il Monastero S. Chiara. Alle 18:30 la Messa Solenne presieduta da Mons. Giuseppe Petrocchi, Arcivescovo Metropolita dell’Aquila, animata dal Coro Giovanile Diocesano. Finalmente la Beata Antonia ritorna nella sua terra e nella sua casa, il Monastero di S. Chiara a Paganica, dove le Clarisse dal 1997 vivono, dopo il trasferimento dal Monastero dell’Eucarestia, nel centro storico dell’Aquila, per un luogo più silenzioso e adatto alla vita contemplativa, trovato appunto a Paganica nell’ex Convento dei Frati Minori, da anni dismesso.
Nell’antico Monastero dell’Eucarestia, in via Sassa a L’Aquila, le Clarisse hanno abitato per secoli, fin da quando nel 1447 Giovanni da Capestrano lo affidò ad Antonia e alle sue religiose claustrali. Un prezioso complesso, quello dell’Eucarestia, per quanto ormai inadatto con le tante e diverse esigenze di oggi. E’ un vero e proprio scrigno d’arte, sebbene il sisma l’abbia fortemente danneggiato. Il corpo architettonico si distende lungo via Sassa. L’interno è a pianta rettangolare, con massicce volte a crociera poggianti su capitelli pensili del Rinascimento. Lo spazio ripartito in due ambienti distinti: l’uno era riservato alle monache e l’altro, anteriore, ai fedeli. Il muro divisorio con una grata permetteva alle Sorelle di seguire dall’interno le funzioni religiose. Il Coro, interamente affrescato da Paolo Cardone nel 1586, ha 99 stalli ed è opera di ebanisti milanesi di inizio Cinquecento. La Chiesa conserva mirabili opere dei principali artisti del Rinascimento abruzzese: Andrea Delitio, Francesco da Montereale, e appunto Paolo Cardone. Di particolare pregio gli affreschi di Andrea Delitio: l’Adorazione del Bambino colpisce il visitatore per le notevoli dimensioni e l’estrema delicatezza nella resa dei volti. L’intento del pittore e di Antonia, probabile committente dell’opera, era quello di mettere in evidenza l’umiltà della Sacra Famiglia, nello spirito della prima regola di S. Chiara. Altrettanto pregevole è l’affresco raffigurante la Madonna con Bambino e Sant’Ansano, come pure preziosi sono i tre affreschi di Francesco da Montereale, risalenti al 1490, che raffigurano la Crocifissione, la Via Crucis e la Teoria di Santi Francescani.
Come si diceva, la Beata Antonia (Firenze, 1400 – L’Aquila, 1472) è una figura preminente nella spiritualità aquilana e nel contesto del grande movimento riformista del francescanesimo che va sotto il nome di Osservanza minoritica. Il movimento fu fortemente presente dal 1415 in poi a L’Aquila e in Abruzzo, al centro d’un fenomeno di dimensioni europee con importanti ricadute sulle comunità abruzzesi sia sotto gli aspetti religiosi che per quelli sociali e culturali. La Deputazione Abruzzese di Storia Patria e la Provincia Francescana dei Frati Minori d’Abruzzo opportunamente sta celebrando il VI Centenario dell’Osservanza in Abruzzo con numerosi eventi, che si concluderanno nel prossimo mese di ottobre. Ma del notevole rilievo dell’Osservanza ce lo dicono la stessa biografia della Beata Antonia ed il contesto storico e spirituale del Quattrocento, nel territorio aquilano e in generale. Ne vogliamo tracciare qui una sintesi, anche per comprendere l’attaccamento che gli Aquilani nutrono verso il francescanesimo e le sue figure più rappresentative.
Antonia nacque a Firenze intorno al 1400. Andata sposa giovanissima ad un suo coetaneo, prematuramente morto a qualche anno dal matrimonio, ebbe un figlio che curò da sola e da sola attese alla sua prima educazione. Non intese passare a seconde nozze, nonostante le raccomandazioni dei familiari, per l’inatteso arrivo della chiamata alla vocazione. In quegli anni Bernardino da Siena, insieme ad altri frati minori, stava diffondendo l’Osservanza, che avrebbe dato un nuovo impulso all’ordine francescano con il richiamo all’austerità della Regola di Francesco ed alla povertà. Bernardino, predicando nelle chiese e sulle piazze di tutta Italia, aveva suscitato un’autentica primavera di vita cristiana. Predicò anche nella Chiesa di S. Croce, a Firenze, dall’8 marzo al 3 maggio 1425. Antonia lo ascoltò, maturando nel cuore la decisione di consacrarsi a Dio.
Entrò quattro anni dopo nel Terz’ordine francescano regolare femminile, fondato dalla Beata Angelina dei Conti di Marsciano. L’accolse il Monastero fiorentino di S. Onofrio, nel quale rimase per poco tempo, perché dalla fondatrice chiamata prima a Foligno, ad Assisi e poi a Todi. Infine, richiesta a L’Aquila per fondarvi un Monastero di terziarie, Antonia fu inviata insieme a un piccolo drappello di suore. Era il 2 febbraio 1433.
Rimase alla guida del Monastero di S. Elisabetta per 14 anni, ma la pur intensa vita spirituale non riusciva ad appagare il suo desiderio d’una sempre più profonda contemplazione. Andava così maturando in lei il pensiero di lasciare il Terz’Ordine per abbracciare la Regola di S. Chiara. In quegli anni altri monasteri di Clarisse, vicine al movimento degli osservanti, stavano vivendo un intenso rinnovamento, volendo rivivere la freschezza delle loro origini, mediante la primitiva Regola di S. Chiara. In questa decisione forte ed eroica, Antonia trovò sostegno spirituale e guida in Giovanni da Capestrano, in quegli anni a L’Aquila, che procurò i locali necessari per lei e le consorelle che avevano deciso di seguirla. Era il 16 luglio 1447. Un grande corteo di cittadini con a capo Giovanni da Capestrano, partendo da Collemaggio, accompagnò la Beata e le altre 13 sorelle al Monastero dell’Eucarestia, chiamato successivamente “della Beata Antonia”, dopo la morte di lei. Incominciò così sotto il segno della più stretta povertà l’ultimo cammino ascensionale di Antonia, che portò tanto splendore all’Ordine delle Sorelle povere di S. Chiara. Per sette anni tenne l’ufficio di Abbadessa impostole da Giovanni da Capestrano, poi tornò nel silenzio e nella contemplazione più profonda del mistero di Cristo crocifisso, nel quale s’immedesimò completamente. Ma quei sette anni di badessato furono sufficienti ad imprimere uno straordinario impulso alla vita contemplativa del monastero, nella perfetta osservanza della Regola, tanto che la fama si diffuse subito in città e nei dintorni, procurando numerose altre vocazioni.
Era tale la povertà che le Clarisse s’imposero che alcuni giorni dopo l’ingresso in monastero mancava anche lo stretto necessario per sopravvivere e lei di persona decise d’uscire per chiedere elemosina. Seppe tuttavia vivere l’austera povertà con letizia evangelica, tanto da essere sempre allegra, che pareva abbondasse d’ogni cosa. Sapeva trascinava tutte, con la parola e l’esempio. Era forte e materna, coltivando con tutte l’unità e l’armonia della vita fraterna. Le sorelle della fraternità subirono il fascino del suo esempio e molte di loro offrirono alla Chiesa un genuino esempio di santità, come Ludovica Branconio, Giacoma dell’Aquila, Bonaventura d’Antrodoco, Paola da Foligno, Gabriella da Pizzoli, Giacoma da Fossa, proclamate Beate, ed altre ancora. Antonia visse sempre in obbedienza ed umiltà. Il suo stile di vita sempre limpidamente evangelico: occupava a mensa e in coro l’ultimo posto, indossava i vestiti più logori della comunità. Le sorelle inferme, deboli, tentate e scoraggiate, trovavano sempre in lei conforto e l’amore tenero di una madre, pur essendo lei stessa affetta da un’orribile piaga che mantenne nascosta. Diversi i fenomeni mistici, di cui le sorelle furono testimoni, frutto del suo grande amore per il Signore. Durante la preghiera risplendette sul suo capo un globo di fuoco, fu vista lievitare da terra e lei stessa è testimone della visione della Madre di Dio con in braccio Gesù bambino.
Antonia morì la sera del 29 febbraio 1472, “vegliata dalle sorelle che udirono suoni di cetre, organi e canti”. Fu l’inizio della sua glorificazione. Il suo trapasso fu segnato da miracoli prima ancora che fosse inumata la salma, come le guarigioni istantanee d’un aquilano sofferente di idropsia e di suor Innocenza clarissa, anche lei aquilana, che fu guarita dalle numerose piaghe. Quindici giorni dopo la sepoltura le suore riesumarono il sacro corpo per rivederlo prima che si disfacesse completamente. Con grande meraviglia lo rinvennero incorrotto. Ripeterono più volte l’esperienza, tanto che se ne diffuse la voce in città. Ma per evitare esagerazioni il vescovo, cardinale Amico Agnifili, ordinò che la salma fosse sepolta allo scoperto, fuori del luogo sacro. Cinque anni più tardi il vescovo Ludovico Borgio, successore dell’Agnifili, concesse la riesumazione del corpo, trovato nuovamente incorrotto. Solo allora venne autorizzato il culto pubblico e il corpo fu levato da terra. Dopo regolare processo canonico, il 28 luglio 1848, Pio IX la dichiarava Beata. Il messaggio lasciato dalla Beata Antonia è quello d’una santità gioiosa e nascosta, totalmente avvolta nella segreta bellezza di un Dio sommamente amato. Ancor oggi le Sorelle povere, trascinate dal suo esempio e da quello di S. Chiara, vivono una vita semplice, nel silenzio del chiostro, ponendo Dio come il Tutto della loro vita. Le Sorelle dell’antico Monastero dell’Aquila, oggi trasferite nel nuovo Monastero di S. Chiara a Paganica, custodiscono con fedeltà il corpo incorrotto della loro Madre e continuano il cammino di consacrazione, nella gioia d’un amore che non ha fine. Sono davvero un punto di riferimento spirituale, di serenità, di attenzione verso gli ultimi, di preghiera, che molto giova ad una comunità così duramente colpita dalla tragedia del terremoto, consapevole della certezza di trovare nelle Clarisse un luogo sicuro di meditazione e fraternità.
Vediamo ora quale fu il contesto storico e spirituale nel quale l’Osservanza minoritica maturò, con particolare riguardo a L’Aquila e l’Abruzzo, per poi diffondersi in Italia e in tutta Europa. Alla morte di Francesco d’Assisi l’Ordine minoritico che egli aveva fondato era già molto diffuso, raggiungendo negli anni successivi, oltre che buona parte del continente europeo, anche Irlanda, Scozia, le regioni balcaniche e perfino la Scandinavia. Tuttavia, con la morte del fondatore, l’Ordine dei frati minori dovette affrontare una grave crisi d’identità, a causa d’una progressiva normalizzazione che portò all’accentuazione del carattere clericale. La fase evolutiva si concluse con Bonaventura da Bagnoregio che, eletto ministro generale dell’Ordine nel 1257, redasse una biografia ufficiale di Francesco e ordinò la distruzione delle “legende” più antiche, come quella scritta da Tommaso da Celano, e promulgò le nuove costituzioni dell’ordine. Sotto la sua guida lo scopo dell’Ordine divenne quello di rispondere alle necessità più urgenti della Chiesa, come la predicazione, le missioni e la lotta all’eresia, cosicché i francescani iniziarono a non rifiutare d’accettare la dignità di vescovo o la carica di inquisitore. La povertà venne quindi interpretata come semplice rinuncia a ogni forma giuridica di proprietà e venne introdotta la nozione di “uso in povertà” dei beni materiali.
Durante tutto il Duecento e oltre, in seno all’ordine s’accese una forte disputa tra frati favorevoli ad una interpretazione più blanda della Regola, in modo da privilegiare lo studio e la predicazione nelle città, e altri più inflessibili nel chiedere il ritorno alla volontà originaria del fondatore e all’interpretazione letterale della Regola, specie in materia di povertà. Queste posizioni rigoriste e radicali circa l’austero rispetto della Regola si fuse con le attese apocalittiche del pensiero di Gioacchino da Fiore, dando vita al movimento degli Spirituali, che ebbe forte riferimento anche organizzativo con Angelo Clareno e Ubertino da Casale, quest’ultimo anche con atteggiamenti fortemente critici verso il papato. E peraltro il movimento esercitò una forte influenza sulla vita spirituale e religiosa di quel periodo, che attendeva l’Era dello Spirito, resa ancora più imminente nelle attese con l’elezione al soglio pontificio del monaco eremita Pietro del Morrone, diventato papa Celestino V, che nei cinque mesi di papato prima della sua storica rinuncia, il 13 dicembre 1294, aveva fatto diversi atti innovatori, come l’emissione della Bolla della Perdonanza, che istituiva il primo giubileo della Cristianità concedendo l’indulgenza plenaria e gratuita a chiunque si recasse sinceramente pentito e confessato, dai Vespri del 28 a quelli del 29 agosto d’ogni anno, alla Basilica di Collemaggio, a L’Aquila. O come la concessione agli Spirituali della facoltà di organizzarsi in Ordine religioso che osservasse alla lettera la Regola di Francesco e la vita eremitica. Pensò il suo successore Bonifacio VIII ad annullare la concessione, ed i successivi pontefici Clemente V e Giovanni XXII a bollare d’eresia il movimento degli Spirituali, definendo “fraticelli”gli eretici.
Nel 1368 Paoluccio Trinci ottenne dal ministro generale Tommaso da Frignano il permesso di riaprire l’eremo di Brogliano e di osservare la regola in tutto il suo rigore. La santità personale di frate Paoluccio, la sua sottomissione alle autorità ecclesiastiche e la protezione politica assicurata dai suoi familiari, signori di Foligno, permisero alla comunità di Brogliano di svilupparsi e raggiungere la stabilità, facendone un autorevole centro di riforma che conobbe una rapida diffusione, in Umbria e nell’alta Sabina (Rieti). La riforma di Brogliano acquisì stabilità giuridica definitiva nel 1388 quando per Paoluccio venne approvato il titolo di commissario anche dal ministro generale dell’Ordine, Enrico Alfieri. Fu quella di Paoluccio la prima comunità dell’Osservanza. Sotto il commissariato di Giovanni da Scontrone le comunità osservanti salirono a trentaquattro e i frati a duecento. Ma il maggiore sviluppo s’ebbe con l’ingresso di grandi personalità, come quelle di Bernardino da Siena, Giovanni da Capestrano e Giacomo della Marca, con il sostegno di Alberto da Sarteano. Sotto il loro influsso gli osservanti, pur mantenendo stile di vita eremitico, si aprirono agli studi e all’apostolato della predicazione. Il successo e la forte diffusione dei frati osservanti acuirono i contrasti con i francescani “conventuali”, favorevoli ad una regola meno rigida. Per riportare all’unità l’Ordine, diviso in conventuali e osservanti, nel 1430 Martino V diede ai francescani delle nuove costituzioni, elaborate da Giovanni da Capestrano – fine giurista, prima di diventare frate -, con norme accettabili da entrambe le parti sulla proibizione dell’uso del denaro e sulla rinuncia ai beni immobili. Ma il tentativo si rivelò un insuccesso, come pure quelli degli anni successivi. Nel 1438 venne eletto vicario generale degli osservanti Bernardino da Siena, che scelse Giovanni da Capestrano come suo assistente. Con la maggiore autonomia concessa nel 1446 da papa Eugenio IV, l’Osservanza francescana si diffuse rapidamente in Francia, Germania e nei Paesi Bassi, poi in Austria, Ungheria, Polonia e Boemia, specie sotto l’influsso della predicazione di Giovanni da Capestrano.
Ancora un’annotazione per concludere con l’opera della Beata Antonia e dell’Osservanza francescana in territorio aquilano. Gli osservanti erano arrivati all’Aquila intorno al 1415. Ma la forte espansione del movimento s’ebbe con la predicazione a L’Aquila di S. Bernardino da Siena (Massa Marittima, 1380 – L’Aquila, 1444), insieme a S. Giovanni da Capestrano (Capestrano, 1386 – Ilok, 1456) e S. Giacomo della Marca (Monteprandone, 1393 – Napoli, 1476), che con Alberto da Sarteano costituiscono le quattro colonne portanti dell’Osservanza. Alla loro opera s’unì la Beata Antonia, insieme alle consorelle clarisse, con il grande carisma che l’animava. Grande la fioritura spirituale nel Quattrocento, dunque, grazie a queste grandi figure, cui s’aggiunsero i francescani osservanti Beato Vincenzo dell’Aquila e Beato Timoteo da Monticchio, insieme alle numerose Beate clarisse, già citate, tutti straordinari testimoni della fede.
Con loro, e con l’Osservanza, fiorì la rinascita spirituale a L’Aquila, in Abruzzo, in Italia e in Europa. Rinascita resa ancor più feconda dalla scelta di Bernardino di tornare in città, sentendo vicina la morte. “Eamus, fratres, ad Aquilam. Non subsisto possum, ad Aquilam, ad Aquilam, ad Aquilam missus sum”. Così la notte del 30 aprile 1444 Bernardino degli Albizzeschi, 64 anni, sfinito ed emaciato dalla malattia e dalla penitenza, aveva salutato per l’ultima volta i frati del convento della Capriola, nei pressi di Siena. Vincendo le loro preoccupate implorazioni a restare in città, spinto da una grande forza interiore, con quattro confratelli s’era messo in cammino verso l’Abruzzo in quello che sarebbe stato il suo ultimo viaggio. Un viaggio lungo, faticoso, pieno di sofferenze. Giunto all’Aquila, nel suo convento di San Francesco, sentendo arrivare l’ora del trapasso, Bernardino aveva chiesto ai confratelli d’essere deposto, spoglio e con le braccia aperte a croce, sul nudo pavimento della sua cella. Poco dopo, al vespro di quel mercoledì, spirò. Era il 20 maggio del 1444. Con tutte le residue forze aveva desiderato transitare alla vita eterna non nella sua terra toscana ma ad Aquila, la bella città che più amava, dove aveva predicato insieme ai fedeli discepoli Giovanni da Capestrano e Giacomo della Marca, esercitando una grande influenza nella vita spirituale, sociale e civile.
Enorme commozione aveva procurato nella città la scomparsa di Bernardino da Siena. Gli aquilani avevano ottenuto che le sue spoglie riposassero all’Aquila. Il processo di canonizzazione, subito avviato, in appena sei anni aveva portato alla santificazione di Bernardino. A 10 anni dalla morte del santo, dalla Polonia, Giovanni da Capestrano aveva indirizzato agli Aquilani una lettera, una durissima reprimenda alla città, per non aver ancora edificato a San Bernardino la basilica promessa. Ne valse la pena, perché iniziarono presto i lavori per edificare quella meraviglia rinascimentale che è la Basilica di San Bernardino, dove le spoglie del Santo senese riposano nello splendido mausoleo scultoreo di Silvestro dell’Aquila. Giovanni da Capestrano, “grande apostolo e difensore dell’Europa”, come lo ha definito Giovanni Paolo II, nel 1456 girò in lungo e in largo l’Europa orientale, su incarico del papa, predicando la mobilitazione contro i Turchi, che avevano invaso la penisola balcanica. Con le migliaia di volontari raccolti partecipò nel luglio di quell’anno all’assedio e alla liberazione di Belgrado, con la sconfitta dell’esercito turco. Purtroppo vi contrasse la malattia che tre mesi dopo l’avrebbe portato alla morte, ad Ilok, in Croazia.
(cronaca di Goffredo Palmerini)