L’AQUILA – Nel pomeriggio di domenica 20 ottobre 2019, nella cornice offerta dalla suggestiva chiesa parrocchiale di Assergi intitolata a Santa Maria Assunta, ha avuto luogo il secondo appuntamento di Magnifica citade, festival dei castelli aquilani tra arte e musica, e ha visto protagonisti dell’indimenticabile serata il gruppo vocale Le Cantrici di Euterpe e l’ensemble Aquila Altera, che hanno eseguito il concerto “Madre de pietate – la lauda da Celestino V alle confraternite aquilane”. Il concerto, nato all’interno delle manifestazioni RESTART programmate per il decennale del terremoto, ha inteso rendere protagonisti degli eventi alcuni dei Castelli che concorsero alla fondazione della città dell’Aquila. Le musiche eseguite sono state illustrate dalla direttrice artistica Maria Antonietta Cignitti. Nella felice occasione chi scrive, invitato a descrivere la magnifica chiesa di Assergi, si è espresso nei termini che seguono.
“Vorrei stasera, in questo straordinario contesto e in questa magica atmosfera – musica medievale in questa bellissima chiesa medievale, tra le più suggestive del territorio aquilano – e nel poco tempo a disposizione, non tanto fare un pedissequo elenco delle opere d’arte presenti (lo potremo forse fare dopo) ma prendere spunto da questa felice commistione di generi artistici per mettere in evidenza come in queste nostre chiese antiche, soprattutto in quelle dell’Abruzzo interno, si assista quasi sempre ad una sorta di contaminazione, o, più propriamente, di convivenza, non solo di stili artistici, ma anche di simboli religiosi e vita ordinaria. Del resto, a ben riflettere, in una chiesa come questa, oltre all’arte pura, troviamo quasi sempre spunti di storia civile, di filosofia, di teologia, cioè di tutti quei saperi critici di cui oggi più che mai, in questa società dell’ “usa e getta” c’è bisogno. La stessa arte in sé, anche quella laica, se è autentica, comunica sempre qualcosa di sacro: l’artista vero, come il sacerdote, fa sempre, in qualche modo, scendere Dio sulla terra. L’arte è sempre una scintilla divina, una “sana follia” che ci viene da un’altra dimensione, come ci mostrano i grandi poeti romantici del primo ‘800 (pensiamo a Novalis, a Holderling). L’arte – dice il grande filosofo Schelling – è una forma di conoscenza molto più forte e attendibile della ragione, giacché nella riflessione discorsiva si perde sempre qualcosa per strada, mentre l’intuizione artistica va immediatamente all’essenza delle cose.
C’è poi da dire che, in questa patria della bellezza che è l’Italia, che si porta nel ventre ben quattro millenni di arte e di cultura, ci imbattiamo spesso in città o in piccoli centri che danno l’impressione di essere state in passato capitali di tante piccole patrie. Assergi, con la sua chiesa, non sfugge a questa costante della storia italiana. Poteva accadere nei primi secoli dell’era cristiana, all’inizio di quell’affascinante Medioevo che stasera stiamo in qualche modo celebrando, che in questi luoghi remoti e solitari dell’Appennino alcuni giovani, magari provenienti da famiglie gentilizie come San Benedetto da Norcia, giovani assetati di assoluto, sentissero il bisogno di unirsi per poter menare vita comune nella pratica della nuova religione del Dio incarnato; e fondavano un monastero. Più tardi, attorno al monastero cominciavano a stabilire le loro dimore i montanari dei dintorni, e si iniziava a disboscare e dissodare le terre circostanti. E la chiesa diventava punto di aggregazione comunitaria, liturgica e civica, chiesa e municipio, di quell’uomo medievale che è unitario, non schizofrenico come l’uomo moderno.
In questo posto, per una di quelle singolari coincidenze che si osservano nella storia, e che noi credenti dovremmo chiamare non coincidenze ma “Dio-incidenze”, in uno stesso periodo nascono un castello, una chiesa (che sorge su uno sperone roccioso, in una posizione di difesa strategica e che coincide con uno dei bastioni delle mura di cinta del castello) e un uomo, il futuro San Franco, un monaco benedettino che verrà in queste nostre montagne mosso da una vocazione cristiana più radicale, destinato ad incrociare il suo destino con questo borgo e con questa chiesa (colgo l’occasione per annunciare che l’anno prossimo si celebreranno gli ottocento anni dalla morte dell’eremita del Gran Sasso). Assergi, come è noto, fu uno dei castelli, e tra i più fiorenti, che fondarono la città dell’Aquila. L’atto di battesimo della chiesa è del 1150, come risulta da un documento ritrovato in seguito alla demolizione dell’altare di Sant’Egidio, primo protettore di Assergi prima di San Franco, ma viene costruita (o ricostruita) sicuramente su di una precedente pieve, con tutta probabilità di tipo monasteriale camaldolese, intitolata a S. Maria in silice (con riferimento al Silex-Gran Sasso più che alla natura rocciosa del terreno sul quale sorge), o ad silicem, da cui Assilico, Asserice…fino ad arrivare ad Assergi (etimologia che possiamo riscontrare anche in nomi come Monselice).
Di questa primitiva chiesa era sicuramente parte l’attuale antichissima cripta. Il tempio, dapprima ad una sola navata, assumerà l’attuale forma basilicale, con le sue larghe navate laterali, già a partire dalla metà del secolo successivo, poco dopo la morte del santo eremita, perché si tratterà di dare ai resti mortali del santo una degna dimora, e perché si vuole incrementare un pellegrinaggio che è già iniziato. Ed è per questo che diventerà, già a partire dal XIV secolo, una chiesa collegiata particolare: collegiata, in quanto, come gran parte dei castelli fondatori della città dell’Aquila, avrà la sua chiesa di riferimento entro le mura aquilane, come avverrà per gran parte dei castelli fondatori (nel caso di Assergi nel quarto di Santa Maria); particolare, in quanto non sarà soggetta alla chiesa cittadina, ma, al contrario, eserciterà su di essa il suo governo. E sarà inoltre presto una chiesa capitolare, cioè con un preposto e quattro canonici. La nomina del preposto, come ci ricorda Nicola Tomei in quello che il primo scritto organico sulla storia di Assergi e sul culto di San Franco, dovrà essere ratificata dal papa.
Tornando all’arte, a proposito di quella felice convivenza di stili cui accennavo e che è la chiave di lettura che questa serata mi suggerisce – il filo rosso di questa mio modesto intervento -, essa è osservabile sia all’esterno che all’interno. Nella facciata, realizzata tra la fine del XIV secolo e l’inizio del XV, un elegante portale tardo-romanico (in tutto simile a quello di Santa Maria del Guasto, ora non più esistente e a quello della chiesa aquilana di Sant’Agnese, non più visibile in quanto inglobata dal vecchio ospedale San Salvatore), convive con un leggiadro rosone tipicamente gotico, perfetta replica di quello che si ammira sopra il portale di sinistra nella facciata della basilica di Collemaggio. In riferimento invece a quella felice commistione di sacro e profano, nel ricco architrave è scolpita la vite, simbolo liturgico per eccellenza, presente anche nell’Antico Testamento, ma evocatrice anche di vita e di convivialità. Nel rosone, sempre per rimanere sullo stesso tema, figurano dodici raggi: dodici come gli apostoli, come le tribù di Israele, come i mesi dell’anno, ad indicare la pienezza del tempo.
Ma ci sono naturalmente anche all’interno esempi di questa felice combinazione di stili. Il primo è quello messo in evidenza dal quel restauro dei primi anni ‘70 del secolo scorso, che, dovendo riparare ai guasti prodotti in età tardo-barocca (tra il 1746 e il 1784) e poi nel 1871, quando era stata innalzata la volta, richiuse cappelle e finestre, riquadrate le colonne e seppellito gli affreschi con, a dir poco, disinvolte manate di stucco, ha riscoperto, oltre a tutto il resto, un manto pittorico davvero delicato, anche se a tratti frammentario, con affreschi che vanno dal XIV secolo (qualcuno anche più antico) al XVI, alcuni dei quali attribuiti Saturnino Gatti e Francesco da Montereale, due grandi protagonisti del Rinascimento aquilano. I caratteri del primo gotico, ravvisabili nelle luci, in particolare la monofora sopra l’abside e nell’involucro murario, qui, a differenza di edifici sacri cistercensi del territorio forconese, come in Santa Maria ad Criptas a Fossa o quello di Santo Spirito ad Ocre, cui questa chiesa si può legittimamente rapportare, mentre impreziosiscono l’ambiente, non compromettono l’originaria struttura romanica, che resiste sia nella forma delle colonne, pesanti e a tutto sesto, che nell’abside, semicircolare e di piccola dimensione.
Il secondo: nel tabernacolo a sinistra dell’altare per chi guarda, pezzo davvero unico, dove l’eleganza rinascimentale dei due pilastrini si sposa con il raffinato gotico dell’archetto cuspidato. Il tutto poi ad incorniciare una suggestiva pietà, che è opera di Francesco da Montereale e che è realistica ed intuitiva rappresentazione del mistero eucaristico. E c’è poi la stupenda cripta, dove questa combinazione si presenta sotto altra forma ma in maniera non meno affascinante: un romanico scarno, che un restauro del 1966 ha riscoperto nella sua nuda bellezza, convive con una pregevole espressione scultorea gotica. Altre felici contaminazioni le rivelerà la dottoressa Cignitti.
Ci fu un grande architetto e storico dell’arte che visitò questa chiesa nel 1899. La apprezzò molto e scrisse, tra l’altro, che essa parlava molte lingue: quella rinascimentale sulla facciata, la barocca all’interno, e sotto, riferendosi alla cripta, scrisse che parlava ‘l’oscuro linguaggio del Medioevo’. Ora, dopo questa musica, in questa chiesa, a mio avviso, tutto si può dire meno che il linguaggio del Medioevo sia oscuro. Anzi, se pensiamo non solo all’arte, ma anche a quelle grandi cattedrali del pensiero come la filosofia di San Tommaso d’Aquino, a me pare che dal Medioevo, a dispetto di una certa superficiale mentalità post illuministica, ci viene una grande luce di verità e di libertà. E con questo concludo, sperando di avervi trasmesso un’idea sufficiente di questa chiesa, tra le più belle del territorio aquilano, chiesa parrocchiale di un paese, Assergi, che ha avuto, come ho cercato di rappresentare, un passato di illustre castello aquilano e che meriterebbe forse, nel presente, un’attenzione e una valorizzazione maggiori”.
A cura di Giuseppe Lalli
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