L'Aquila

Devozioni e tradizioni delle genti del Gran Sasso: San Franco D’Assergi

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ASSERGI (AQ) – Nei primi secoli dell’era cristiana, in quell’affascinante stagione della storia che chiamiamo ‘Medioevo’, poteva accadere che in questi luoghi solitari e remoti dell’Appennino, alcuni giovani, magari provenienti da famiglie gentilizie come Benedetto da Norcia (480 c.ca-547), giovani assetati di assoluto, sentissero il bisogno di unirsi per condurre vita comune nella pratica della nuova religione del Dio incarnato. E così fondavano un monastero. Più tardi, attorno al monastero cominciavano a stabilire le proprie dimore i montanari dei dintorni, e si iniziava a disboscare e dissodare le terre circostanti. E infine si costruiva la chiesa, che diventava punto di aggregazione comunitaria, liturgica e civica, tempio e municipio, di quell’uomo medievale che è unitario, non schizofrenico come quello moderno.

Qualcosa del genere è potuta accadere anche in questa nostra contrada, dove, per una di quelle singolari circostanze che chiamiamo coincidenze e che forse dovremmo chiamare ‘Dio-incidenze’, in uno stesso torno di tempo è nato un castello, quello di Assergi, una chiesa, il nucleo dell’attuale chiesa parrocchiale, e, in una non lontana contrada, un uomo, il futuro San Franco (1154/59-1220/30), che con questo castello e a questa chiesa avrebbe intrecciato il suo destino, in vita e dopo la morte. Le notizie su San Franco ci vengono quasi tutte dagli Atti, che sono l’antico manoscritto latino che fu conservato nella chiesa parrocchiale di Assergi fino al 1791 e poi andato perduto. Nicola Tomei (1718-1792), preposto di Assergi dal 1742 al 1764, uomo dotto e fine latinista, che lo ebbe tra le mani, nella sua Dissertazione sopra gli Atti, e culto di S. Franco, pubblicato a Napoli nel 1791, lo descrive come un piccolo codice membranaceo scritto in carattere antico abbastanza intellegibile, con lettere iniziali miniate, contenente la vita, morte e miracoli di S. Franco.

Il Tomei assegna il manoscritto agli ultimi decenni del secolo XIII (a differenza di qualche altro studioso, che lo colloca comunque non al di là dei primi decenni del secolo successivo) e crede che si tratti della stesura primitiva o di una copia ricavata su di essa. Pensa altresì che lo scritto debba attribuirsi ad un monaco o a un prete di Assergi, contemporaneo del santo, che aveva inteso tramandare avvenimenti a cui aveva assistito o che aveva udito raccontare da chi ne era stato testimone. Si deve quindi ritenere che ci troviamo di fronte a un testo scritto quando il santo era morto da poco. Oltre a quella riportata dal Tomei nella sua Dissertazione, di versioni degli Atti ne esistono altre tre: una, riportata dai Bollandisti, negli Acta Sanctorum redatta dal gesuita Padre Antonio Beatillo (1570-1642), a cui Tomei muove puntuali critiche di ordine filologico, e altre due, curate dal benedettino Padre Costantino Caetani (1568-1650), custodite nella Biblioteca Universitaria Alessandrina di Roma. Pur presentando queste quattro versioni alcune varianti grammaticali e sintattiche, oltre che nell’estensione della narrazione riferita ai miracoli attribuiti al santo post mortem, esse sostanzialmente concordano nel testo, e si possono persino disporre in lettura sinottica, come del resto ha fatto nel suo libro, Assergi e S. Franco – eremita del Gran Sasso – , pubblicato nel 1980, Don Demetrio Gianfrancesco (1922-2004), dal 1954 al 1976 parroco zelante di Assergi, di cui fu anche scrupoloso studioso e della cui chiesa fu custode amorevole.

Che cosa ci dicono questi Atti? Franco nasce all’inizio della seconda metà del XII secolo, allorché la dominazione normanna nell’Italia meridionale volge al declino. L’anonimo biografo non riporta la data di nascita, ma ci fornisce, in relazione ad essa, dei riferimenti storici, tra i quali il più stringente è quello relativo al papato di Adriano IV (4 dicembre 1154-1°settembre 1159): in tutto 4 anni e nove mesi in cui si deve collocare la nascita del santo. Nessun dubbio invece sul luogo: nasce a Roio (Castellum de Roge o anche Pagus ruìdus, come si legge in alcuni antichi documenti), nell’attuale frazione di Roio Piano, che al tempo faceva parte del feudo amiternino e della diocesi di Forcona. Ancora oggi, a Roio Piano, in un edificio una lapide apposta sul muro ricorda che quella era la casa natale di San Franco.

Franco nasce da agiata famiglia di allevatori, e mostra ben presto di essere un ragazzo intelligente e virtuoso. Il padre lo affida alle cure del prete Palmerio affinché gli dia i primi rudimenti. Nell’animo del ragazzo matura assai presto la vocazione religiosa, e un giorno in cui un suo fratello maggiore, forse mosso da invidia, lo costringeva a pascolare le pecore, fugge e bussa alla porta del monastero benedettino di San Giovanni in Collimento, a Lucoli. Qui, resistendo alle insistenze dei genitori che volevano che tornasse a casa, completa gli studi e conduce per vent’anni una esemplare vita di monaco, rifiutando, alla morte dell’abate, di sostituirlo alla guida della comunità, nonostante la volontà espressa dai suoi confratelli. Spinto da un desiderio di perfezione maggiore, una notte, scambiato un commosso abbraccio con i suoi compagni, avendo per solo viatico il Vangelo e una sporta con poco sale e qualche pane, prende congedo da loro e si rifugia dapprima in una grotta vicino ai boschi di Lucoli e poi, sfuggendo ai tanti devoti che, spinti dalla fama che presto si diffonde delle sue virtù e dei suoi prodigi, desiderano incontrarlo, vaga dalle parti di Montereale, per poi raggiungere un luogo remoto sopra il territorio del Vasto, dove miracolosamente fa sgorgare una sorgente d’acqua pura e dove rimane per cinque anni. Ma nemmeno questo, a lungo andare, gli pare posto adatto alla sua esigenza di solitudine. Molta gente va a fargli visita, e allora si sposta verso i monti sopra Assergi, sistemandosi in una spelonca sotto una rupe. La tradizione ha identificato in una grotta sotto le rocce di Pizzo Cefalone e in un’altra più in basso, detta “I Peschioli”, i due eremi dove l’eremita trascorse i suoi ultimi quindici anni, conducendo vita austera e compiendo molti miracoli. Scendeva a valle solo nei giorni festivi per assistere alla messa nella chiesa di Assergi e ricevere i sacramenti dai monaci del contiguo monastero.

Quando Franco rende l’anima a Dio, le campane della chiesa di Assergi suonano da sole; i monaci, insieme a tutto il popolo, svegliati e commossi, vedono una luce che promana dalla grotta dell’eremita e intuiscono ciò che è accaduto. Raggiungono l’eremo. Canti e lacrime si confondono, depongono devotamente in una barella il corpo che odora soavemente e lo trasportano a valle. Più che un corteo funebre dovette trattarsi di una piccola marcia trionfale. Possiamo immaginare che il corteo entra nel castello di Assergi e si dirige verso la chiesa. Nella cripta vengono tumulate le spoglie mortali di colui che per il popolo è già santo. Dopo qualche tempo le ossa verranno estratte e sistemate in una cassa di pietra andata perduta e della quale si conserva il solo coperchio, dove è scritto in latino: Qui riposa il corpo di Franco(ne), sacerdote di Dio, 5 giugno.

Gli Atti non menzionano la data della morte del santo. Una tradizione antica e consolidata ci ha tramandato il solo giorno (5 giugno, giorno della sua festa), mentre l’anno, sulla base di alcuni dati cronologici nominati nella scarna biografia, lo si fa ricomprendere, con ragionevole approssimazione, nel decennio 1220/1230. Per convenzione tra gli studiosi si è infine deciso di indicare nel 1220 l’anno ufficiale della morte, e questo ha fatto sì che nel corrente anno 2020 si celebri l’Ottocentenario della morte del santo eremita. Il culto popolare inizia subito dopo la morte. Il vescovo di Forcona dovette ben presto approvare le manifestazioni spontanee dei fedeli. E così San Franco ebbe il suo altare, la sua ufficiatura e la sua festa liturgica. Giova osservare che nell’epoca di cui si parla il riconoscimento della santità era demandato ancora alla chiesa locale, vale a dire al vescovo. La canonizzazione affidata al papa, benché fosse già iniziata, non si era ancora consolidata nella prassi ecclesiale. Non si deve però pensare che quella locale fosse una prassi sbrigativa nella quale il vescovo si limitasse a sancire automaticamente il fervore popolare. Al contrario, si trattava di un procedimento assai rigoroso. Anche se la “vox populi” era considerata un indizio importante, l’approvazione del vescovo non era affatto scontata.

La fama di santità dell’eremita del Gran Sasso, da sempre particolarmente viva nel versante teramano della montagna, si diffonde assai presto e oltrepassa gli stessi confini della regione. Attualmente si festeggia nei paesi che furono toccati dalla sua biografia: Roio, naturalmente, il suo paese natale, Lucoli, nella cui abbazia visse per almeno vent’anni, Arischia, il cui territorio è vicino all’Acqua di S. Franco, Ortolano, frazione di Campotosto la cui chiesa parrocchiale è intitolata al santo eremita, ed è poi protettore, oltre che di Assergi, di una piccola frazione di Isola del Gran Sasso, Forca di Valle, dove, particolare curioso, il santo è rappresentato non vecchio e con la barba, ma come un giovane pastore, a significare forse che la santità è un’eterna giovinezza. La chiesa parrocchiale di Assergi, intitolata a Santa Maria Assunta, diventa assai presto chiesa-santuario e assume la sua attuale forma basilicale già a partire dalla seconda metà del XIII secolo, ad incrementare un pellegrinaggio già iniziato.

Ho richiamato questi dati storici non per inutile pedanteria, ma per mostrare che la vicenda di questo santo, ancorché assai lontana nel tempo, e sia pure con qualche incertezza temporale e inesattezza che si riscontra negli Atti in riferimento al contesto storico-politico, è storicamente attendibile. Inoltre, come dirò, è inquadrabile in un preciso contesto religioso e in una determinata geografia spirituale. Quella di San Franco è senz’altro una vicenda originale (ma del resto tutti i santi sono originali), ma non isolata, e si capisce meglio alla luce di un fenomeno, quello dell’eremitismo dei secoli centrali del Medioevo, tra l’XI e il XII, che interessò l’Italia e l’Europa, e che avvenne all’interno di un più generale movimento di rinnovamento spirituale. Ciò avveniva in un contesto sociale caratterizzato da una forte crescita economica e da una intensificazione dei rapporti commerciali, fattori che furono alla base di una decisa crescita demografica.

Un particolare colpisce della biografia del giovane Franco. Egli è di buona famiglia. I suoi appartengono ad una classe che con terminologia moderna potremmo definire di piccola borghesia agraria, che vive di pastorizia e commercializzazione della lana. Il giovane Franco, intelligente e sensibile, realizza ben presto che quello di una tranquilla esistenza di agiato possidente non può essere il suo ideale di vita. Egli chiede alla vita un senso. C’è, da parte sua, una richiesta di senso che è anche, a mio parere, una larvata protesta nei confronti di una certa ipocrisia di una società che già mostra i segni dell’opulenza, a cui Franco oppone la scelta della radicalità cristiana, un atteggiamento analogo a quello che sarà di Francesco d’Assisi (1881/82-1226), sia pure declinato in forme diverse. Mi viene da pensare a quella rivoluzione giovanile degli anni ‘60 del secolo scorso. Ho sempre creduto che, mutatis mutandis, dietro slogan e atteggiamenti di rottura radicale, ci fosse in gran parte di quei giovani una richiesta di senso, un’esigenza di assoluto che classi dirigenti più sensibili e una chiesa post conciliare meno distratta, avrebbero potuto cogliere ed intercettare. Il proiettile sparato in alto, se non trova sfogo, rimbalza sulle pareti e finisce per ferire chi lo ha lanciato… A partire dal X secolo, e in modo particolare tra l’XI e il XII, l’età in cui vive Franco, in un contesto religioso percorso da fermenti di rinnovamento evangelico cui non sono estranee attese di tipo apocalittico, alla crisi del monachesimo tradizionale corrisponde una rinnovata fioritura spirituale, che si manifesta, da un lato, in forme più o meno organizzate che presto verranno inquadrate nei grandi Ordini Mendicanti (i Domenicani e i Francescani); dall’altro, in forme libere e individuali, come è il caso del nostro eremita.

Questo eremitismo della seconda ondata differisce da quello dei primi secoli dell’era cristiana in più di un punto. Se quello antico si caratterizza per la ricerca del deserto (prevale la fuga dal mondo), quello medievale, che è profondamente segnato dalla prevalenza della Regola monastica di San Benedetto, tende ad armonizzarsi con il contesto sociale. La vicenda di Franco, a saperla leggere, è intrisa di questa socialità. Dagli Atti traspare abbastanza chiaramente come in Franco la fuga dal mondo convive, sia pure in maniera problematica, con l’apertura al mondo. Vediamo che Franco, da un lato non si sottrae al rapporto con quanti lo cercano, dall’altro cerca sì di isolarsi, ma è un isolamento che è dettato dall’esigenza di mantenere la pace interiore sulla punta dell’anima ed è finalizzato ad attingere da un rapporto più intenso con Dio la forza per abbracciare tutto e tutti. Del resto, un’altra differenza tra questo eremitismo e quello antico attiene ad un aspetto all’apparenza pratico, ma che ha conseguenze anche di ordine spirituale: mentre gli anacoreti dei primi secoli sono dediti alle attività manuali, con le quali si procacciano il necessario per vivere, quelli del tempo di Franco vengono assai spesso riforniti dai devoti. L’eremita, al contrario del cenobita, diventa in questa età una figura familiare, perché incontra la gente: la vita contemplativa non esclude le relazioni umane. Franco ci appare tutt’altro che un misantropo. Se fosse stato un misantropo, o un asociale, i monaci di Lucoli non lo avrebbero preferito come loro capo; e quando ha preso commiato dai suoi confratelli, come leggiamo negli Atti, li ha abbracciati con le lacrime agli occhi.

Girovagando tra queste montagne, magari alla ricerca di frutti di bosco, avrà sicuramente esercitato l’apostolato occasionale. Quante liti tra pastori avrà sedato; quante dispute tra piccoli proprietari, magari per problemi di confini, avrà composto; quanti consigli a vecchi e giovani avrà dispensato; quante ferite dell’anima avrà curato; e quanta paziente direzione spirituale avrà esercitato anche tra i suoi stessi confratelli del convento di Assergi, che lo avranno considerato un fratello maggiore, un compagno distaccato in una sorta di prima linea dello spirito. Avrà perfino, di tanto in tanto, accettato di mangiare un pezzo di pane e un po’ di pecorino con i pastori. Sarebbe tuttavia fuorviante giudicare la vicenda di Franco con le sole categorie umane. Gli stessi miracoli, che spesso ci parlano di un ritrovato equilibrio tra l’uomo e la natura, servono all’uomo di Dio a mostrare “i nuovi cieli e le nuove terre”, cioè l’anticipo di ciò che attende una umanità riconciliata, nella Grazia, con la natura, e a far vedere ciò che doveva essere il mondo prima che il peccato intervenisse a rompere l’equilibrio che Dio aveva stabilito. Al tempo stesso Franco mostra come la natura stessa sia un miracolo permanente per chi la voglia vedere con gli occhi della fede: il grano che cresce, l’acqua che scorre, gli alberi che danno frutti.

Un’altra sollecitazione ci viene da questo Medioevo degli eremiti: il valore di quella condizione esistenziale così estranea alla mentalità odierna, vale a dire il silenzio: il valore del silenzio in un mondo che ha fatto della parola, anzi della chiacchiera, la sua nota dominante. Siamo così sommersi dalle parole che in ogni città importante, in ogni capoluogo di provincia, è stato eretto un monumento alla chiacchiera: il Palazzetto dei Congressi. Se ci prendessimo la briga di fare una ricerca su ciò che si dice in questi luoghi, anche in riferimento alle comunicazioni scientifiche propriamente dette, accerteremmo che le effettive “informazioni” rappresentano una percentuale bassissima: tutto il resto è chiacchiera, laica liturgia della parola, diplomazia comunicativa, pubbliche relazioni; quando non è autoincensamento dell’“io”, vaniloquio o sprezzante faziosità. Eppure, per poco che rientriamo in noi stessi, ci accorgiamo che prima di ogni parola sensata c’è il silenzio, e che dietro ogni idea degna di questo nome e alle spalle di ogni solido progetto, c’è un pensiero coltivato, accarezzato nel silenzio. Sappiamo per esperienza che in ogni rapporto interpersonale emotivamente intenso i momenti di silenzio superano di gran lunga quelli della parola.

Il silenzio fa parte della struttura costitutiva dell’essere umano, come ci mostrano i grandi pensatori di ogni tempo. Franco, questo silenzio, lo ha coltivato fino a farsi abitare dall’Assoluto, e solo dopo ha parlato al lupo, che gli ha obbedito, e ha gridato all’albero che si stava schiantando sul boscaiolo e l’albero si è fermato a mezz’aria. Come accennavo all’inizio, Assergi e San Franco sono stati per molto tempo un binomio inscindibile. Nicola Tomei scrive che «rare sono le persone del paese, ch’entrino in Chiesa, e non calino a venerare il Santo». Nel secondo dopoguerra, quando gli emigranti partivano, chiedevano al parroco, come viatico, una messa «a cascia aperta», cioè celebrata nella cripta tenendo aperto il coperchio della cassapanca contenente le reliquie di San Franco. Alla fine della celebrazione, come ha ricordato appropriatamente in un’intervista l’amico Franco Dino Lalli, veniva fatta baciare la reliquia del braccio del santo, a protezione dalle insidie che coloro che partivano avrebbero potuto incontrare in terra straniera.

Tra tutti i miracoli che si ricordano negli Atti, uno, tra quelli registrati subito dopo la morte, a me pare il più toccante, e quello che meglio descrive il valore della santità. L’ho sentito per la prima volta dalle labbra di mia nonna quand’ero bambino. Si trova nella Lectio VII degli Atti. Si racconta che un uomo di Assergi di nome Tommaso di Giacobbe uscì di casa in pieno giorno per condurre le vacche e le pecore al pascolo nel bosco. Il figlioletto, di nascosto dalla madre, prese la stessa strada dove aveva visto incamminarsi il papà, ma ad un certo punto, perso l’orientamento, si inoltrò nel fitto della vegetazione del bosco. Vagò per tutto il giorno e alla sera, stanco e in lacrime, vinto dal sonno, si addormentò. A sera Tommaso, rincasando, chiese alla moglie dove stesse il bambino, e si sentì rispondere che essa era convinta che stesse col lui. Poiché non riuscivano a trovarlo, chiamarono i parenti e i vicini e, torce alla mano, andarono a cercarlo, ma inutilmente. I genitori cominciarono a temere che, avventurandosi nel bosco, il bimbo fosse stato divorato da bestie feroci. In preda alla disperazione, si recarono in chiesa a supplicare il santo davanti al suo sepolcro chiedendogli la protezione del figlioletto. Di buon mattino, ripresero le ricerche nel bosco e quale non fu la loro gioia quando videro il bimbo sano e salvo. Dopo averlo riabbracciato, gli chiesero come avesse trascorso la notte. Il bambino rispose che un monaco, a tarda ora, lo aveva svegliato, gli aveva dato pane e formaggio e gli era stato vicino per tutta la notte. Poi, sul far del giorno, lo aveva condotto nel posto dove lo avevano ritrovato dicendogli di non aver paura perché i genitori stavano venendo a prenderlo. Dopodiché il monaco era scomparso. Che dire? Qui ci troviamo di fronte all’irrompere del soprannaturale nella vita ordinaria. Storie simili si sono sentite raccontare anche ai nostri giorni da persone credibili in riferimento a un altro frate che sembrava venuto direttamente dal Medioevo: Padre Pio. Questo miracolo di San Franco ci mostra che il soprannaturale non è lontano da noi, anche se non lo vediamo, come non vediamo l’aria che respiriamo e il sangue che scorre nelle vene: il Cielo si chiama così non perché sta in alto, ma perché si cela ai nostri occhi, come ho sentito dire spesso da un altro frate di nome…Padre Quirino Salomone.

Si dirà che siamo creduloni. Forse! Ma siamo in buona compagnia. Recentemente Vittorio Messori, un giornalista e storico dal passato tutt’altro che da credulone, ha pubblicato un piccolo libro dal titolo “Quando il Cielo ci fa segno”, nel quale riferisce di episodi (uno dei quali capitato a lui stesso) su cui ha condotto un’indagine rigorosa e per i quali mostra che non c’è altra spiegazione ragionevole rispetto all’esistenza di una “dimensione altra”che di tanto in tanto si manifesta. E vorrei concludere, rimanendo su questo tema, con la testimonianza di Henry Bergson (1859-1941), originale figura di filosofo e scienziato francese vissuto tra l’Ottocento e il Novecento, studioso, tra l’altro, dei problemi della psicologia, anche lui tutt’altro che credulone. Della sua straordinaria esperienza ci riferisce il suo ultimo discepolo, Jean Guitton (1901-1999), morto quasi centenario poco più di vent’anni fa: un racconto che vale da solo più di un trattato.

Siamo nel 1905, Bergson sta ultimando un importante saggio sull’evoluzione dell’universo, ma non riesce ad andare avanti. È colto da tensione, emicranie, stanchezza, senso di vuoto. Un giorno in cui il disagio si era fatto più acuto, dirigendo lo sguardo fuori della finestra del suo studio, gli pare di vedere una grande luce. A questo punto crede di stare impazzendo, di essere vittima, lui studioso dei fenomeni paranormali, di una sorta di allucinazione. È in preda a questi pensieri, quando nella stanza entra la sua figlioletta di nove anni, Jeanne, che gli grida: «Papà, papà! Ero in camera mia, ho visto una luce, qualcosa nella luce, papà, non ho mai visto niente di così bello!». Il padre tira un sospiro di sollievo e le dice: «Bambina mia, non farne parola con tua madre: non capirebbe. Ma sappi che io ti credo perché…perché ho appena visto la stessa cosa».

Presto torna il sereno nella sua anima, riprende il lavoro e ultima il saggio. Ma il ricordo di questa esperienza lo seguirà per tutta la vita, e quando, venticinque anni dopo, nelle ultime pagine del suo capolavoro, “Le due fonti delle religione e della morale”, uno dei più grandi saggi del Novecento, passerà in rassegna tutti i fenomeni parapsicologici, parlando di quelle manifestazioni che non trovano una spiegazione naturale plausibile, scrive queste memorabili parole:

«Supponiamo che un chiarore di quel mondo sconosciuto giunga fino a noi, visibile agli occhi del corpo. Quale trasformazione (avverrebbe) in questa umanità abituata di solito, checché se ne dica, ad accettare come esistente solo ciò che vede e ciò che tocca! L’informazione che ci arriverebbe[…]riguarderebbe forse[…]l’ultimo gradino della spiritualità. Ma tanto basterebbe a convertire in realtà viva ed operante una credenza nell’aldilà che sembra essere presente nella maggior parte degli uomini, ma che molto spesso appare verbale, astratta, inefficace. […]. Basta guardare come ci buttiamo nel piacere: non ci terremmo tanto (al piacere) se non vedessimo in esso…un mezzo per esorcizzare la morte. In verità, se fossimo sicuri, assolutamente sicuri di sopravvivere (alla morte del corpo) non potremmo pensare ad altro. Il piacere sarebbe eclissato dalla gioia».

Queste parole luminose di speranza sono anche il succo di questo mio modesto intervento, il filo rosso che lega tutte le mie riflessioni sulla figura di San Franco. Franco rinuncia ai piaceri e alle comodità che gli avrebbe garantito una tranquilla esistenza di agiato proprietario, per inseguire, dapprima in un monastero benedettino, poi in un eremo tra queste nostre montagne, la gioia profonda, anticipatrice di quella eterna: nomade della speranza, come lo ha definito con felice espressione l’amico Giacomo Sansoni in un suo scritto e – aggiungo io – pellegrino dell’assoluto, oltre che, come ci suggeriscono questi nostri stupendi scenari, silenzioso cultore della nuda poesia del Creato. Senza questa “follia”, lucidamente perseguita e così scandalosamente lontana dalla nostra mentalità, non si capirebbe né la vicenda di questo eremita del Gran Sasso, né la santità cristiana che si esprime in ogni tempo e in ogni latitudine.

A cura di Giuseppe Lalli

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