COLONNELLA – Va in scena a Colonnella, Piazza del Popolo, giovedi 4 agosto, alle 21.00, “Fontamara” dal romanzo di Ignazio Silone, adattamento e drammaturgia di Francesco Niccolini, costumi e scenografie Scenotecnica Ivan Medici, musiche originali M° Giuseppe Morgante, regia Antonio Silvagni, con Angie Cabrera, Stefania Evandro, Alberto Santucci, Rita Scognamiglio, Giacomo Vallozza. Una produzione del Teatro Stabile d’Abruzzo in collaborazione con il Lanciavicchio, il Premio Silone e il Comune di Pescina.
«Torno a Fontamara – racconta Francesco Niccolini – 35 anni dopo il mio primo viaggio. Allora avevo 15 anni: la forza disperata dei tre testimoni protagonisti del capolavoro di Silone non mi ha mai abbandonato. Quello stile piano, colmo di dignità e al tempo stesso di umiliazione, l’ironia della scrittura e la ferocia dei potenti. I privilegi dei ricchi, la loro ingordigia, la presa in giro spietata di un mondo destinato al genocidio. Perché un genocidio è stato. Solo che allora non avevo gli strumenti per capirlo. Quando vent’anni fa ho avuto la fortuna di lavorare con Marco Paolini e Gabriele Vacis al Racconto del Vajont, uno dei capitoli più duri da studiare e al tempo stesso esempio di coraggio e forza morale, è stata la lettura dell’arringa dell’accusa, scritta dall’avvocato Sandro Canestrini, ora novantaquattrenne: ne fece un piccolo libro, un autentico pamphlet, che intitolò Vajont:genocidio di poveri.Ecco, tornando a Fontamara a distanza di tanti anni, e con molti chilometri e incontri belli e tragici sulle spalle, penso che questo romanzo capolavoro sia un altro capitolo fondamentale per chi ha deciso di raccontare quel genocidio. Ora, insieme agli attori cafoni come si definiscono loro stessi del Teatro Lanciavicchio e ad Antonio Silvagni, provo a portare quelle voci e quei fantasmi sul palcoscenico».
“Fontamara è un romanzo spietato – spiega il regista Antonio Silvagni – Questa assenza mi ha suscitato da sempre un certo fastidio in questo straordinario romanzo, che ho amato, che dovevo amare, raccontava della mia terra, ma …qualcosa mi allontanava da Silone. Sentivo che la commozione che io provavo per i cafoni, non intaccava minimamente Silone e questo lo trovavo inspiegabile, ma anche insopportabile. Silone non lascia trasparire mai la pietà per la situazione miserrima dei cafoni, che pure vivono in condizioni disumane, vengono imbrogliati, sbeffeggiati, sfruttati, violentati uccisi, ma l’autore tira avanti dritto nella sua strada narrativa, senza indugiare un momento in considerazioni sul loro dolore, in descrizioni della loro afflizione.
Malgrado quello che accade ai fontamaresi, Silone non è mai indulgente con loro, con i loro difetti, le loro meschinità dettate dall’ignoranza e dalla miseria.
Poi – colpevolmente in ritardo – ho capito che una delle forze del romanzo è proprio questa assenza di indulgenza da parte dell’autore, questa scelta di sradicare ogni forma di pietà dalla narrazione di una storia cosi terribile, quella spietatezza nella cronaca di fatti duri, cruenti, immorali che ci accompagna all’ ineluttabile destino di morte è il solo modo di raccontare una società che per affermarsi ha bisogno di sbeffeggiare l’ingenuità, sbeffeggiare l’ingenuità, calpestare i più deboli. L’ assenza di commozione è la strada che intraprende Silone per commuovere, per commuoverci… ‘farci muovere verso’… E muovere qualcuno e far muovere qualcosa attraverso l’arte in un momento storico di coscienze assopite come quello che ha vissuto Silone, era un grande obiettivo. A lui è riuscito, e riesce ancora a quasi un secolo di distanza.
Abbiamo cercato con il nostro spettacolo di essere il più possibile vicini a Silone, abbiamo cercato uno spettacolo asciutto, rigido, duro. Uno spettacolo senza pietà. Senza pietà per i cafoni e la loro storia. Senza pietà per gli attori inchiodati sul posto a dar vita a cento vite. Senza pietà per quegli spettatori abituati a ammiccamenti e moine. Senza pietà per i figli dei cafoni di Fontamara e le loro storie d’oggi”.