Nel Centenario della Grande Guerra Giuseppe Lalli ricorda come l’evento fu vissuto ad Assergi e Camarda
A cento anni esatti dalla fine della Grande Guerra, mi piace ricordare come essa venne vissuta nelle nostre comunità paesane nei suoi aspetti più umani. Cambiano le alleanze, mutano i confini, si alternano le classi dirigenti, ma l’umanità, nei tratti essenziali, è sempre la stessa. C’è, tuttavia, sempre, l’umanità dei piani alti e quella del sottosuolo. Ci sono i figli della buona borghesia cittadina, come il futuro scrittore Carlo Emilio Gadda, che si arruola volontario e da sottotenente di complemento tiene un diario puntiglioso e introspettivo; o come il futuro poeta Eugenio Montale, che alla luce (o all’ombra) della sua esperienza al fronte, ci regalerà, nei suoi “Ossi di seppia”, l’espressione lirica di quel “male di vivere” che dice di avere contratto al fronte. E ci sono i fanti semplici, i nostri contadini abruzzesi, che fanno il loro dovere e basta, come scrive con ammirazione il fante Benito Mussolini nel suo diario di guerra.
Lo scrittore americano Ernest Hemingway, arruolatosi volontario a diciotto anni, nel suo celebre “Addio alle armi”, fa dialogare il protagonista, l’ufficiale americano Henry, con un cappellano militare di Capracotta, che gli parla della sua straordinaria regione, l’Abruzzo, del maestoso Gran Sasso e della bella città dell’Aquila, realizzando, come annota lo storico Umberto Dante, “forse l’immagine letteraria dell’Abruzzo più stampata e diffusa nel Mondo…”. E ci sono i figli dei contadini di Camarda e di Assergi, che sostituiscono i modesti calzari con gli scarponi (e forse ci guadagnano, nel cambio), la zappa con il moschetto, la “sarrecchia” con la baionetta.
Quarantacinque (diciannove nella sola frazione di Assergi) furono i soldati morti in guerra nell’allora Comune di Camarda, che al tempo comprendeva anche Assergi, Aragno, Filetto e Pescomaggiore. Quarantacinque vite spezzate nel fior degli anni, quarantacinque persone che andrebbero onorate una ad una, giacché Dio, come diceva un filosofo francese, sa contare solo fino a… uno. Ho serbato nella memoria le immagini crude con le quali, ad Assergi, gli anziani che avevano partecipato alla Grande Guerra, raccontavano la loro esperienza: fame, sporcizia, fango, notti di paura.
Tre storie meritano di essere conosciute. Le riporta Antonio Muzi, storico camardese, in un libro dove il rigore storiografico e la poesia pura si fondono mirabilmente. C’è la storia di Franco Baglioni, l’unico graduato tra i quarantacinque caduti. Sottotenente di complemento non ancora ventenne, nelle trincee del Carso, il 27 ottobre 1916, qualche giorno prima dell’assalto che gli avrebbe costato la vita, scrive alla fidanzata, con tono enfatico, e affettuoso, la seguente frase: “Invio i miei più affettuosi saluti e baci dalla trincea di prima linea qualche momento prima dell’ora gloriosa. Tuo per sempre”.
Franco Baglioni, “bruno aquilotto del Gran Sasso”, come lo definisce il poeta assergese Silvio Lalli in una poesia a lui dedicata qualche anno dopo, unico “intellettuale” tra le vittime, era perito elettrotecnico. Era figlio di Romualdo Raimondo, “capomastro appaltatore” assai noto e stimato nell’alta valle del Raiale. Dobbiamo alla paziente ed appassionata ricerca di Antonio Muzi l’identificazione della destinataria del biglietto. Si tratta di Marietta Casilli, che morirà di lì a poco, il 19 settembre 1921. La foto pervenutaci, ci mostra una donna ancor giovane, ma prematuramente sfiorita: uno sguardo fiero e penetrante e al tempo stesso rassegnato. Lo zio Nicola Felici, inquieto uomo di cultura che si divideva tra Roma e Camarda, dedicherà alla prediletta nipote un libro nel terzo anniversario del trapasso. Esiste ancora a Camarda un terreno recintato denominato “l’orto del sor Nicola”.
Ma ci sono altre due storie, all’apparenza meno poetiche, ma non meno umane. Quella di Antonio Morelli. Nato nel 1883, era sposato con Berardina Carrozzi. Era partito l’11 luglio 1916. La moglie, secondo l’abitudine patriarcale del tempo, viveva nella stessa casa dei genitori del marito. Un giorno, mentre erano riuniti attorno al focolare, sentirono bussare all’uscio. Un uomo in divisa o un’autorità comunale veniva a comunicare ai parenti la morte del loro congiunto. Lo sgomento che ne seguì fece sì che il figlioletto Mario, di due anni, sfuggito nello spavento al controllo dei grandi, cadesse nel focolare riportando una grave ustione alla mano destra.
C’è infine il caso toccante di Giocondo Tramontelli. Partito il 26 novembre 1915, già ferito nell’agosto del 1916, nella primavera del 1917 riportò delle ferite alle gambe a cui non si prestò la dovuta attenzione. Dovettero in seguito amputargli una gamba per cancrena. Morì in seguito per malattia, all’ospedale militare di Milano, a soli vent’anni. Il padre, saputolo malato, benché fosse la stagione estiva, non esitò ad abbandonare il lavoro dei campi, al tempo unica fonte di sostentamento, per recarsi, dopo un viaggio lungo ed avventuroso, al capezzale del figlio morente.
Il colloquio che si svolse tra padre e figlio, pur se tra due persone dal carattere coriaceo come doveva essere quello dei nostri contadini, vale da solo più di qualsiasi poesia. Sembra quasi di sentirli, nella tipica e musicale inflessione dialettale camardese. Al figlio che gli chiedeva: ” Tatà, chi tta portatu fin a eccu? ” (Papà, che ti ha condotto fin qui?), il padre rispose: ” Tu me ccià portatu …” (mi ha portato il cuore di un padre, voleva dire…). Riferisce il Muzi che ogni volta che il fratello di Giocondo raccontava l’episodio le lacrime prendevano il sopravvento sulle parole. Come non capirlo…
Il comune di Camarda fu prodigo di aiuti ai parenti delle vittime, cosa tanto più meritoria se si pensa alle ristrettezze finanziarie dei piccoli municipi in quei tempi. Era sindaco il notaio di origine assergese Tommaso Giacobbe, nobile figura di uomo che di lì a poco avrebbe pagato duramente il suo non essersi piegato alla dittatura fascista. La guerra costò all’Italia più di seicentomila morti (circa altrettanti ne mieterà subito dopo “la spagnola”, l’ultima grande epidemia di massa) e centinaia di migliaia di mutilati ed invalidi.
Sui camminamenti del Carso e sulle trincee dell’Isonzo si conobbero Calabresi e Piemontesi, Siciliani e Lombardi, Campani e Veneti. Non è retorica dire che si cementò, nel bene e nel male, la coscienza di una patria comune. Ma non si deve sottacere che si trattò di un’immane tragedia: una “inutile strage”, come l’aveva definita qualche anno prima Papa Benedetto XV. E fu anche un potente vettore dei totalitarismi del secolo scorso. Alla Grande Guerra prese parte anche il poeta Giuseppe Ungaretti. Celebre è la sua poesia “San Martino del Carso”.
Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro
Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto.
Ma nel cuore
nessuna croce manca.
E’ il mio cuore
il paese più straziato.
A cura di Giuseppe Lalli