Si pensa ad un ecomuseo sulle guerre del XX secolo con i volontari del Servizio Civile Nazionale
CASTELVECCHIO SUBEQUO (AQ) – Grazie al web, rintracciata piastrina di un alpino di Castelvecchio Subequo (AQ), “mandato a morire” sul fronte russo.
E’ in animo una sezione ecomuseale dedicata alle guerre del XX secolo, in collaborazione con il volontariato del Servizio Civile Nazionale e le scuole della Comunità Montana Sirentina.
“La storia è maestra di vita, ma ha negli uomini dei pessimi studenti” (W. Churchill).
Amelio Pizzocchia, caporal maggiore di Castelvecchio Subequo (AQ), del Battaglione L’Aquila, quello dal motto dannunziano “D’Aquila Penne Ugne di Leonessa”, IX Reggimento Alpini, divisione Julia, aveva appena compiuto 21 anni il 7 dicembre del 1942. Non c’era nulla da festeggiare a ridosso di quel sanguinoso Natale di guerra sul fronte russo, nella steppa lungo il fiume Don. Un immaginario doloroso immortalato da Bepi De’ Marzi nel brano: “L’ultima notte”https://www.youtube.com/watch?v=UgjaacdDU-A. Poi dal 21 gennaio del 1943, dal combattimento di Popowka, durante la ritirata e per sfondare la sacca in cui erano intrappolati dall’Armata rossa, il giovane alpino abruzzese venne considerato scomparso e morto presunto, fino all’atto definitivo di morte del 1985 da parte della Commissione Interministeriale.
Non è stato il solo a perdere la giovane vita in quelle drammatiche circostanze. Erano tre le divisioni raggruppate del 4º Corpo d’armata alpino, fra nuove leve e reduci del fronte greco-albanese, agli ordini del generale Nasci: la Cuneense (generale Battisti), la Tridentina (generale Reverberi) e la Julia (generale Ricagno), che sommavano circa 55.000 uomini (E. Corradi, La Ritirata di Russia, Longanesi & C. 1965) tutte in forza all’ARMIR agli ordini del generale Italo Gariboldi. Erano partiti insieme nell’estate del ’42 con altre divisioni italiane (Cosseria Ravenna, Sforzesca). Tutto ciò nel mentre era già in corso dal 1941 l’Operazione della Germania nazista “Barbarossa”, contro l’Unione Sovietica, tradendo quel patto di non belligeranza Molotov-Ribbentrop del 1939 fra le due superpotenze. Un fronte lungo 1600 km dal Mar Caspio al Mar Nero, che coinvolse in totale 229 mila italiani, fra fanteria ed altri corpi militari, prima come CSIR (Corpo di Spedizione in Russia – generale Messe, divisioni Pasubio, Torino e Celere) e poi come ARMIR (Armata Militare in Russia – generale Gariboldi). Per un totale complessivo con le forze dell’Asse di oltre 4,5 milioni di uomini, soprattutto tedeschi.
All’inizio la destinazione delle nuove divisioni alpine doveva essere il Caucaso, invece, per via dell’andamento degli eventi bellici, furono mandati in pianura, nella steppa, a presidiare la sponda del fiume Don, mal equipaggiati e con mezzi ed armi inidonei. Dovevano essere pronti ad intervenire dalle retrovie, a compensare le falle della prima linea con altre le divisioni italiane, tedesche, ungheresi e anche romene, già impegnati sul fronte di Stalingrado. Un contributo italiano, come ebbe a dire Montanelli, insignificante sulle sorti dell’operazione Barbarossa. Del resto non era un mistero lo scetticismo e la diffidenza sin dall’inizio dei tedeschi nei confronti del regio esercito italiano agli ordini del duce.
Purtroppo la neve del generale inverno a – 40 gradi e l’Armata rossa, rifornita dagli alleati americani, martellanti a suon di “katiusha” e carrarmati, i quali potevano agevolmente attraversare il congelato Don, non solo respinsero il fronte di Stalingrado ma vennero in controffensiva e accerchiarono in una sacca il nemico. Il 16 dicembre ’42, prima con l’operazione “Piccolo Saturno” e poi dal 12/1/1943 con l’offensiva “Ostrogorsk-Rossosc”, i russi costrinsero alla sanguinosa ritirata i poveri alpini, affamati e a rischio di morte per congelamento. Per poter sopravvivere dovevano eroicamente sfondare gli sbarramenti russi, subendo continue perdite, non a caso la Julia venne definita “divisione miracolo” (Di Michele, “Io, prigioniero in Russia”, pag. 60, MEF, Firenze, 2009). Resta memorabile l’ultimo sanguinoso sfondamento, combattuto il 26/1/1943, che costò circa 6 mila morti, immortalato nello struggente canto di Bepi de Marzi: “Le voci di Nikolajewka” (https://www.youtube.com/watch?v=IGbyKOO9Cys).
“Delle centomila gavette di ghiaccio”, volendo focalizzare le cifre solo sulle tre divisioni alpine summenzionate, con cui povero Amelio era partito, di circa 55 mila uomini, circa 43.580 restarono lì morti o prigionieri. Ovvero solo il 20 per cento, a piedi, fra feriti sulle slitte, malati, denutriti, stremati, riuscì a raggiungere la linea tedesca alla fine di febbraio, dopo quasi mille chilometri. L’unico conforto fu quell’espressione di pietà “talianski karasciò” (italiani buoni), da parte delle popolazioni, soprattutto ragazze ucraine, alle quali si deve la sopravvivenza di molti alpini, grazie all’offerta di cibo e riparo nelle isbe.
Da tale scenario, in cui, da come si legge nella letteratura dei sopravvissuti a quell’inferno di ghiaccio, i corpi degli alpini e dei muli saltavano in aria a brandelli, simili a papaveri rossi, con caduti per i quali non c’era modo né tempo per una sepoltura, del compianto Amelio non si è avuta più nessuna traccia.
Tempo fa Gaston Billerbini, di origini italiane, nato in Argentina ed ora in Pennsylvania, appassionato studioso delle guerre mondiali, in particolare del fronte russo, collezionista-fotografo, memore di caduti della sua famiglia di origine, nel ricercare testimonianze belliche, ha intercettato dei cimeli degli alpini, in vendita su ebay da parte di russi che li avevano ritrovati, sepolti nel terreno. Li ha acquistati e fra questi cimeli ha notato la piastrina del povero Amelio. La spedizione postale di partenza dalla Russia, recapitata a Billerbini e mostrata con una foto, porta proprio il timbro da Rossocch, uno dei paesi nel medio Don, dove gli alpini avevano una sede di comando durante il presidio prima della ritirata. Il bravo Gaston, studioso ma contrario alle guerre come ci tiene a sottolineare, ha, sempre grazie al web, effettuato ulteriori ricerche per rintracciare eventuali parenti a cui donare la piastrina e, tramite facebook, ha contattato lo scrivente, poiché con lo stesso cognome, figlio del caporale alpino Tullio Pizzocchia, classe 1914, reduce dai fronti greco-albanese e russo, commilitone e cugino del compianto alpino subequano, di cui spesso ne aveva raccontato la sciagura. La piastrina partita dagli USA a metà ottobre è attualmente in transito nell’aeroporto di Milano Malpensa e, per i vari controlli, potrebbe arrivare anche nell’arco di due mesi.
L’attesa per il ritorno di una piastrina appartenuta alla breve vita di un figlio della Valle Subequana, morto in un’allucinante guerra, suscita molta emozione. Amelio, attualmente, non ha eredi diretti, ma solo nipoti. A Castelvecchio Subequo pertanto sarà organizzata una cerimonia. Si sta pensando ad una sezione museale, nell’ambito della Comunità Montana Sirentina – Ecomuseo d’Abruzzo, raccogliendo con l’aiuto della cittadinanza i vari i cimeli e foto, dedicati ai conflitti mondiali del secolo scorso, fino alla Liberazione. Perché come recita il drammaturgo Marco Paolini: “il fronte è una storia di famiglia e non c’è cognome italiano che non ci sia restato”. La mostra-museo servirà a testimoniare e a narrare dal vissuto della comunità locale. Alcuni episodi sono riportati anche in varie pubblicazioni, per esempio: “E si divisero il pane che non c’era”, a cura del Liceo Scientifico di Sulmona. L’iniziativa dovrà coinvolgere i volontari del Servizio Civile Nazionale, essendo la Comunità Montana Sirentina un ente accreditato, e le locali istituzioni scolastiche. La finalità vuole essere anche a valenza di pedagogia sociale, per evitare quel rischio temuto da W. Churchill: “La storia è maestra di vita, ma ha negli uomini dei pessimi studenti”; così le nuove generazioni, più consapevoli della brutalità della guerra, potranno desiderare sempre più un mondo di Pace.
(a cura di Giovanni Pizzocchia) (*)
(*) http://www.innovatoripa.it/blogs/giovannipizzocchia