Che non fosse però un santone c’erano a tradirlo il biondo del cespuglio e i monosillabi gutturali e taglienti che emergevano dalla sua bocca quando acquistava un panino farcito, che condivideva con il cane, nel bar a lato, spargendo sul bancone gli spiccioli appena raccattati. Per il resto, la sua giornata trascorreva nel silenzio più assoluto, rotto soltanto a sera, quando all’interno del bar, davanti a una birra più volte replicata, si lasciava andare a spizzichi di confidenze con qualche altro “disperato” come lui.
Hans veniva da una regione della Germania del Nord. Aveva scelto L’Aquila per viverci, perché all’Aquila era passato con la Wehrmacht al tramonto della seconda Grande Guerra. Ma quel passaggio lo segnò per tutta la vita, carico come fu di rastrellamenti e di eccidi, tragico colpo di reni di un esercito in sfacelo. Diciassette assassinati a Onna, diciassette a Filetto, centovent’otto a Pietransieri, tra cui sessanta donne e trentaquattro ragazzi sotto i dieci anni. Hans non era nei plotoni di esecuzione. E nemmeno tra gli uomini che all’ordine del tenente Hassen rastrellarono il boschetto presso il convento francescano di San Giuliano, catturando nove giovani, operai e studenti, che stavano per raggiungere i partigiani a Bosco Martese, nel versante teramano, guidati dal Colonnello aquilano Gaetano d’Inzillo.
É a Bosco Martese che ebbe luogo, qualche giorno dopo, la prima battaglia partigiana d’Italia contro le forze occupanti. Una soffiata fece naufragare il sogno. Catturati dai nazisti, i ragazzi furono obbligati a scavare due fosse comuni dove furono gettati dopo l’esecuzione. Tra i nove, anche il figlio del Colonnello D’Inzillo, studente e poeta. Inutili risultarono le mediazioni e le pressioni dell’Arcivescovo Carlo Confalonieri che ottenne solo di poter benedire le fosse. Era il 23 settembre del 1943. Il 14 giugno successivo, a liberazione avvenuta della Città, le salme furono recuperate e composte per i funerali che si tennero quattro giorni dopo. Una Piazzetta adiacente il Corso, con una lapide che accoglie ogni anno l’omaggio di una corona della Municipalità, ricorda i Nove giovani e il loro sogno infranto. Alcune panchine vedono oggi altri giovani, spesso coppie di ragazzi, che continuano a sognare anche per chi non c’è più.
Hans non tornò in Germania, o vi tornò per fuggirsene via in cerca di riscatto. Seppure non era stato tra gli assassini, avvertiva l’orrore di averne fatto parte. Non accettava di essere un sopravvissuto, sia pure incolpevole data la giovane età, di una guerra diabolica e sanguinosa scatenata dall’insipienza umana sposata a una folle sete di dominio. Riapparve un giorno per le nostre strade, pellegrino verso i santuari dell’orrore, un cane pastore tedesco al guinzaglio, lo sguardo perso nel vuoto e l’angoscia dentro di sé. Stazionò dapprima alla piazzetta della memoria e furono giorni di pianto catartico. Seduto a una panchina inseguiva la sua rinascita e cercava di trovarne la via. Nessuno seppe mai in quale buco racimolasse il suo sonno.
La prima scelta fu il silenzio, il solo che gli permettesse di non contaminare con il suo passato chi gli stava d’attorno e questa città che era sobbalzata in lutto sotto le urla dei bombardamenti e alle raffiche di fucile. La seconda scelta fu meno lancinante, e fu quella della povertà. Lui che era stato figlio di un delirio di onnipotenza ed in quel delirio era stato allevato, altra strada non avrebbe avuto, sulla via del riscatto, che quella della povertà. Diventato povero, sentì staccarsi poco a poco dalla pelle, sempre meno chiara, la divisa impeccabile della follia, per rivestirsi di quella lacera di una umanità riconquistata.
Era un aprile piovoso, quello che lo vide, ancora una volta, un giorno, all’angolo di Viale Gran Sasso, eletto a luogo dell’anima, stendere la mano nella richiesta umile della carità. Il cane gli stava accanto immobile, compagno discreto e gratuito della nuova vita. Alcuni, come sempre, gli camminavano davanti lasciando cadere la monetina nel barattolo di latta; altri, i più, gli gettavano uno sguardo distratto e passavano oltre. Avviene sempre così con i poveri, dei quali temiamo più il silenzio che la parola anche lieve, per non sentirne il rimprovero. Hans non rimproverava nessuno, chiedeva solo perdono. Quanti anni erano passati, nemmeno lui lo sapeva. I capelli erano diventati radi e bianchi. Erano apparse le rughe e si infittirono sulla fronte, profonde come solchi d’aratro.
Si diradarono le birre che davano la stura alle mezze e confuse confessioni su un passato inconfessabile. L’ultima volta che lo videro, avanti negli anni e più ischeletrito che mai, fu nel solito bar, una sera, davanti a un bicchiere di birra che a fatica provava a svuotare. La parola gli usciva lenta, ma non per ubriachezza. E gli occhi, gli occhi che aveva tenuto sempre bassi in atteggiamento di umiltà, questa volta erano inspiegabilmente luminosi, ridenti, come solo possono esserlo quelli di chi ha, finalmente, la coscienza rappacificata. Lui non lo sapeva, ma era il suo 25 aprile. Era il riscatto della povertà.
A cura di Mario Narducci
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