L’AQUILA – Sono nato e cresciuto ad Assergi, un villaggio abbarbicato sulle pendici del versante meridionale del massiccio del Gran Sasso, un villaggio costruito sulla roccia, scosceso, e con le case raggruppate e quasi abbracciate tra di loro. Visto da lontano, il mio villaggio poteva apparire come un gregge di pecore su un pendio, che si stringono per meglio difendersi da un pericolo imminente. D’inverno poi, nelle giornate di bufera, era come se una sciarpa bianca lo avvolgesse. Il villaggio, con le sue mura antiche e le sue pietre luminose, pieno di vicoli e piazzette, aveva nella piazza principale, situata a sud, verso la valle, il suo punto di convergenza e il suo baricentro. Si era allargato attraverso i secoli, a partire dalla piazza e dalla chiesa, e ad esse non aveva mai smesso di guardare.
La piazza del mio villaggio è molto bella. In passato era molto più di una piazza. Vi si accede da una via detta “la strada ritta”. C’è una chiesa quasi millenaria dalla facciata luminosa, con un portale in stile finemente romanico e un campanile superbo. All’interno, poi, dalle colonne alla cripta sotterranea, tutto concorre al bello e al buono. Al centro della piazza c’è una fontana, dove un tempo le donne di casa andavano ad attingere l’acqua con le conche, portate agilmente sulla testa. Di fronte alla fontana, un piccolo giardino di pini – “gl’arboretti” -, dove da bambini giocavamo con le biglie colorate, ricordava i caduti di quella Grande Guerra di cui ricorrono cento anni.
Nella bella stagione, al pomeriggio, la piazza si riempiva di mille voci, e diventava il teatro di infiniti giochi. Uno di questi giochi, che vedevo praticato dai ragazzi più grandi, era quello di “mazz’e lirga”. Consisteva nel colpire con una mazza di legno lunga circa mezzo metro, la “mazza”, un legnetto di circa 15 centimetri appuntito alle estremità, la “lirga”, e farla andare il più lontano possibile. Un partecipante al gioco lo raccoglieva con la mano e lo rilanciava al punto di battuta. Il battitore cercava di respingerlo colpendolo al volo con la mazza. Se il bastoncino corto cadeva a terra senza essere respinto, ma a una distanza superiore alla lunghezza del bastone grande, il battitore aveva a disposizione tre colpi per farlo vibrare in aria e rispedirlo, con un colpo ben assestato, il più lontano possibile. A questo punto, il giocatore perdente era quello che non era riuscito ad avvicinare il bastoncino corto, la lirga, alla misura necessaria rispetto al punto di battuta. Il pegno che era costretto a pagare consisteva nel portare a cavalcioni il giocatore vincente fino al punto di battuta, per il numero di volte concordato all’inizio della partita.
Altro gioco preferito da noi maschi era quello del “salt’alla mula”. Si formavano due squadre. Dopo aver fatto “alla conta”, cioè sorteggiato il turno, i componenti di una delle due squadre si disponevano a fare da sedile – da mula -, con un ragazzo dritto con la testa rigirata verso il muro a fare da cuscino, e gli altri del suo gruppo attaccati a fungere da groppa della mula. I ragazzi dell’altro gruppo, uno per volta, prendendo la rincorsa e ogni volta chiamando per nome il saltatore successivo, saltavano in groppa, e nel tempo che pronunciavano la frase di rito “Tre tre giù giù, tre tre giù giù, tre tre giù giù: giù, giù, giù”, quelli di sotto dovevano resistere a tanto peso e così alternarsi nel salto. Se non resistevano e crollavano, erano obbligati a fungere di nuovo da mula.
Le bambine, invece, praticavano giochi più fantasiosi e affascinanti. Ricordo che in uno di essi si tenevano per mano inscenando una piccola fiaba e cantavano a gruppi alterni: “ Oh quante belle figlie madama Dorè, oh quante belle fìglie…; “ Son belle e me le tengo madama Dorè, son belle e me le tèngo…”. Oppure lanciavano la palla verso il muro, e prima di riprenderla senza farla cadere a terra, dovevano muoversi con una parte del corpo, e accompagnare con le parole i movimenti. Ne venivano fuori figure bellissime: “Muovendomi…stando ferma…con un piede…con una mano…a da battere…allo zigolo lo zagolo…al violino…un bacino…tocco terra…tocco cuore…fiorellin d’amore…”. Le donne, fin da piccole, mostrano di essere molto più dell’altra metà del cielo…
Ad una certa ora, la campanella della chiesa interrompeva i giochi e annunciava la lezione di catechismo, “la dottrina”, come la chiamavamo noi ragazzi. Ci andavamo molto volentieri, perché dopo il catechismo il prete ci faceva vedere la televisione, a quel tempo assai poco diffusa nelle case. Lassie…Rin Tin Tin…Bonanza: che belle trasmissioni, che bella televisione… Ma la piazza era anche luogo di ritrovo dei vecchi, che spesso apparivano al mio sguardo di bambino in atteggiamento contemplativo: placidi, baffuti, con un bastone rudimentale in mano e, d’inverno, il mantello, anzi…la mantella. Ce n’erano di molto originali, alcuni sembravano usciti da un romanzo dell’Ottocento.
Uno di essi era soprannominato “Sciancacrapa”. Baffi bianchi e appuntiti come il suo sguardo, aveva l’aspetto di un vecchio garibaldino. Ci parlava spesso delle sue sofferenze durante il conflitto del 1915-18. Noi lo ascoltavamo increduli, col naso all’insù, e quando ci vedeva giocare alla guerra ci apostrofava: “Heh vagliò…, ha ta revenì quela guerra! …”. Un altro, chiamato “Bèbbè”, indossava una giacca nera, un cappello a bell’e meglio e un pantalone tenuto su e abborracciato da una cinta di cuoio che correva fuori dai passanti. Quando nella piazza si preparava il palco per la festa patronale, approfittava della presenza di qualche forestiero per vantarsi di una sua caratteristica anatomica di cui andava molto fiero. Asseriva scherzosamente di avere ben tre mammelle (“tre sise”), e volentieri le esibiva agli increduli ascoltatori. Si allargava la camicia nel petto, e scandiva ad alta voce: “E una…e dù…e…tre”, e mostrava un’escrescenza della pelle in corrispondenza delle costole che ricordava vagamente una mammella.
C’era poi una donnina che ricordo sempre vecchia. Si chiamava Grazia, viveva in un piccolo tugurio nella parte interna del villaggio, e andava in giro avvolta in una vestaglia stretta da una cinta di stoffa nella quale scorreva una grossa chiave. A vederla così, con quella chiave, vicino alla chiesa, me la figuravo la mamma di san Pietro. Povera Grazia! Un sorriso dolce e sdentato illuminava eternamente il suo viso di rughe che parevano solchi. Sembrava una bambina invecchiata prematuramente. Quando ti parlava ti prendeva le mani, e finiva il discorso sempre con la stessa frase, detta in dialetto, l’unica lingua che conosceva: “Ma prò…ma prò…Graziuccia nen s’ tocca…”, come a dire: ditemi quello che volete, ma sappiate che la mia onestà è a prova di bomba. E come darle torto? …
Alla festa del patrono, poi, la piazza diventava sagrato e mercato, luogo di devozione e di divertimento: film all’aperto, processioni, stendardi, banda musicale e bancarelle. Suggestiva, la sera che precedeva la festa di San Franco, il protettore principale, era la “mostra delle Reliquie”, che si faceva da un loggiato contiguo alla chiesa, che dava sulla piazza. Per noi ragazzi era quasi una festa nella festa. Partivamo dalla cripta sotto la navata centrale, ciascuno con una reliquia in mano dietro ai sacerdoti, e salivamo, tra due ali di folla di devoti, al piano superiore, per poi raggiungere il posto dell’esposizione attraverso una scala di legno a chiocciola all’interno della chiesa. Il tratto della scala era buio e, a ripensarci, sembrava di assistere ad una scena del film “Il nome della rosa”, dal famoso romanzo di Umberto Eco. A questa impressione concorreva la figura di padre Stefano, un frate cappuccino che veniva da Chieti per dar man forte al parroco, e che, con la barba, due nere e folte sopracciglia, la capigliatura rasata a corolla attorno alla testa e l’espressione grave del viso, aveva tutta l’aria di un inquisitore medievale. Per ogni reliquia, il sacerdote illustrava, con espressione di voce appropriata, il contenuto: “In questa reliquia…si conserva…”. Seguiva dalla piazza un breve stacco musicale della banda, e, subito dopo, uno sparo. E così di seguito.
Ci fu un anno in cui la cerimonia non poteva iniziare perché il rivenditore di noccioline, un commerciante di Bussi sul Tirino che veniva tutti gli anni e si metteva sempre allo stesso posto, teneva acceso il motore per tostare le arachidi, e gridava a squarciagola: “Noccioline americane!!! Noccioline americane!!!America!!!America!!!”. Allora, mentre il parroco, il compianto Don Demetrio, sbuffava contro l’affarismo che a suo dire era ormai invalso nelle feste religiose, padre Stefano, con il tono di voce stentoreo del predicatore provetto, microfono in mano, annunciò urbi et orbi: “Il rivenditore di nocelle è pregato di spegnere il motore!!!”. Il buon religioso dovette ripetere l’invito più volte perché la piazza si tacesse. Ma subito dopo, la banda, con infelice scelta di tempo e di genere musicale, accennò ad un motivetto allora molto in voga, portato alla ribalta da un cantante francese di nome Antoine, dal titolo “Le pietre” (…sei bello, e ti tirano le pietre, non sei bello, e ti tirano le pietre…). A quel punto, Don Demetrio in persona, fuori dai gangheri, prese in mano la situazione e il microfono, e gridò sdegnato verso la piazza: “eh no! eh no! le pietre proprio no!!!”. La scena, da sacra, era diventata molto esilarante, come in un film di Carlo Verdone.
Del resto, a quell’età tutto, per noi ragazzi, era occasione per ridere, come quando una compaesana a dir poco originale che abitava vicino alla piazza, di nome Lidia, preoccupata per la stabilità della sua casa, tutte le volte che durante la processione sentiva risuonare l’eco degli spari nella valle, usciva con le mani nei capelli e gridava: “A Dì mì, a Dì mì: quisti m’ fann’ spallà la casa!!!”. Cara, simpatica Lidia! Era una di quelle persone senza età, quelle che sembrano destinate a non morire mai. Ancora la rivedo, mentre attraversa la piazza col cappotto e l’ombrello, sia d’estate che d’inverno. E poi, un po’ più in là con gli anni, c’erano le interminabili partite di calcio, con la base del campanile trasformata in una delle due porte e la cunetta di raccolta dell’acqua a fungere da metà campo, attenti, sempre, che non si vedesse la camionetta dei carabinieri, che spesso ci sequestravano la palla. E, tra una partita e l’altra, i primi dibattiti di religione e di politica, in quell’età in cui i propositi si confondono con i sogni, e, insieme al pallone, si cominciano ad inseguire le vocazioni di una vita.
Quante volte questo piccolo luogo dell’anima, che è la piazza del villaggio, ha colorato le mie passioni e la mia fantasia, e fatto da sfondo alle mie letture! Quando a scuola sentivo recitare dagli insegnanti le poesie di Giacomo Leopardi – Il sabato del villaggio o A Silvia, in particolare -, essa era sempre lì, a ricordarmi che, dovunque andiamo, ci portiamo sempre dietro i colori del nostro vissuto, e che la poesia è un’infanzia che non vuol passare, un bambino che bussa sempre alla porta del cuore, e reclama…i suoi diritti.
Mi è capitato qualche tempo fa di contemplare trasognato la piazza del mio villaggio una sera di fine estate, mentre l’ultimo raggio di sole dipingeva d’argento il campanile e la campana rintoccava in solitudine. Mi sono girato per andarmene, ma…improvvisamente, mi è parso di vedere centinaia di rondini che intrecciavano con i loro voli i tetti, i pini e il campanile e…mi è parso di udire molte voci di fanciulle che cantavano… “Oh quante belle figlie madama Dorè, oh quante belle fìglie…” e, più in là… “muovendomi…stando ferma…”. E’ stato un attimo, poco prima che le ombre della sera ricoprissero i miei sogni. Però, è sempre molto bella la piazza del mio villaggio!
(A cura di Giuseppe Lalli)