Quelle note sembravano diffondere un pizzico di vitalità e di spensieratezza che in un contesto sociale come il nostro non dovrebbero mancare mai.
Subito si fecero spazio i ricordi. Le memorie presero posto in un cantuccio della sala di quella che fu la casa paterna, a Roio, dove era collocato un piccolo pianoforte.
Quell’angolo è adesso occupato da scatole piene di cianfrusaglie e da un vuoto che il forzato abbandono ha riempito con un assordante silenzio.
Ricordo quando provai a suonare Maple Leaf Rag: “La musica delle comiche”, così apostrofavo in modo riduttivo il ragtime. Fu una sfida parzialmente vinta, poiché la sonata, di difficile esecuzione, richiede un’abilità tale che non è possibile apprenderla con due soli anni di studi. Comunque, al di là di qualche incertezza, riuscii nell’intento.
Come principiante trovai in quel modesto traguardo un’enorme gratificazione. Ma chi era questo musicista di altri tempi che aveva imbrigliato le mani di tanti virtuosi per poi lasciarle danzare sui tasti chiaroscuri del piano? La sua storia affonda le radici nel Midwest americano della seconda metà dell’Ottocento. Periodo in cui i primi segni di emancipazione della gente di colore passavano anche attraverso la musica.
Dunque, pure in quei luoghi dimenticati da Dio crescevano piccoli talenti. Uno di questi, Scott Joplin, vide la luce un paio di anni dopo la fine della guerra di Secessione. Conflitto che contrappose il Nord industriale al Sud agrario e aristocratico il cui sistema economico faceva leva sullo sfruttamento degli schiavi.
Nel 1899 venne pubblicato dall’editore John Stark & Son la bellissima Maple Leaf Rag la cui non facile esecuzione richiede, come accennavo prima, virtuosismi di non poco conto. Per questa composizione, l’editore gli accordò un centesimo di dollaro a spartito e dieci spartiti gratis che gli consentirono un discreto guadagno per il resto della sua breve vita. Fu dalla fonte del suo genio che nacque l’eccellente e romantico valzer ragtime Bethena (1905), dedicato alla sua seconda moglie, morta prematuramente. Dopo anni passasti tra le bettole e i locali americani, Scott morì nel 1917. Lasciò il suo mondo in punta di piedi, dimenticato da tutti.
Fu solo nel 1973, grazie al film la Stangata in cui venne riproposta la fino ad allora semisconosciuta sonata The Entertainer e, tre anni dopo, in merito all’opera teatrale Treemonisha (premio Pulitzer), che venne rispolverano il mito di Scott Joplin.
Oggi, a L’Aquila, sono proprio i locali, non proprio simili a quelli in cui si esibiva il famoso compositore nordamericano, a dare vita a una città colpita con troppa forza dal terremoto del 2009. Locali che, minimamente attrezzati, potrebbero fare da palestra e da stimolo a giovani artisti aquilani, trasformando alcuni di loro da semplici fruitori passivi di musica a protagonisti.
Un pizzico di sana follia non dovrebbe mancare mai, almeno per provare a fare del capoluogo abruzzese, che assurge a divenire la “città del jazz”, un punto di riferimento e crogiuolo di giovani talenti provenienti anche da altre parti del mondo. Dopotutto, sognare non costa nulla.
(A cura di Fulgenzio Ciccozzi)
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