L’AQUILA – La cura delle radici identitarie come fattore di rinnovata aggregazione sociale per il capoluogo abruzzese è stata periodicamente sbandierata dal sisma del 2009. Sconcertano, perciò, le mancate iscrizioni al quarto livello calcistico nazionale dell’AS L’Aquila e al secondo livello rugbystico nazionale del Rc L’Aquila.
Si tratta, con tutta evidenza, di una fase fallimentare senza precedenti nella storia dello sport aquilano, che non brilla nemmeno nelle altre discipline: pallacanestro e pallavolo navigano in acque interregionali; la pallamano e pallanuoto hanno luce alterna; il ciclismo e il pattinaggio a rotelle mancano dell’antico fulgore; l’atletica è in stadio intermedio; e tutto ciò mentre le pratiche di nicchia ottengono visibilità a patto di grandi risultati. Unica eccezione il tennis, che sta conoscendo un positivo andamento di settore.
Vero è che nella criticissima congiuntura fra i due secoli il mondo sportivo locale, fra grandi dedizioni ed eccessi di autoreferenzialità, ha scontato ritardi impiantistici ed alterne attenzioni istituzionali e di pubblico. Del pari, in altre parti dell’Abruzzo si constatano cadute di tensione verso lo sport in generale (vedi i default di Sulmona, Chieti, Lanciano), pur in presenza di segnali che vanno in direzione opposta. Infatti, da Pescara a Teramo, passando per Avezzano, Giulianova, Francavilla, Ortona, Vasto, si gestiscono vari sport a livelli notevoli e dignitosi.
Nell’Aquilano permane la visione che le attività sportive siano da posporre a ben altre mode civili, non mantenute peraltro in guisa consapevole, viste le perdite di dotazioni amministrative, produttive e culturali. Le conseguenze di questi ‘benaltrismi’ sono sotto gli occhi di tutti: i crack rossoblù e neroverdi causano perdite di iscrizioni di studenti calciatori e rugbysti al Convitto nazionale, proprio laddove, nel ‘900, prese vita la palestra del nostro pionierismo agonistico.
Insomma, nello sport municipale aleggia una mentalità del tutto estranea al senso della comune appartenenza, mentalità che induce a delegare ad altri le varie responsabilità. Prova ne sia il modo auto-assolutorio con il quale si attribuisce il duplice fallimento all’intreccio di recessione e lenta ricostruzione del tessuto urbano. Circostanza questa certo non irrilevante, senonché la vulgata delle ’saccocce vuote’, invero, cela vedute non certo ‘demosteniane’ e/o ‘specialistiche’ in argomento, essendo null’altro che la riproposizione del mecenatismo che spende e spande per il divertissement della piazza ’sanculotta’.
Storicamente, il progressivo calo delle provvidenze politiche e del Totocalcio ai club giustificava, in qualche misura, l’ingresso nello sport dei mecenati, che si rifacevano dei soldi spesi in termini di visibilità e/o di commesse da parte dell’ente locale, all’interno di un lecito e comprensibile do ut des che ora l’intervenuto obbligo di trasparenza rende di fatto impossibile.
Ammesso che lo sport debba considerarsi per le imprese private un investimento finanziario a fondo perduto, nell’ambito della nuova realtà economica del ‘più grande cantiere d’Europa’, il passaggio ‘ragionieristico’ di denaro – diretto o proveniente da banche – da parte del mecenate al club, finalizzato ad arruolare tesserati ecc., è destinato a figurare, nel bilancio della società sportiva, tra le passività, con non irrilevanti problemi nel rapporto, spesso difficile, con le banche. Si pensi poi agli obblighi fiscali e contributivi cui la società sportiva è chiamata a far fronte (si hanno notizie di club che rinviano i versamenti dovuti ai tesserati e allo Stato).
A questo punto, il proprietario del club (cui una banca può chiedere conto delle somme versate alla “sua” società sportiva senza ritorni!) potrebbe rientrare dei suoi esborsi in due modi: o tramite l’aumento dei ricavi del club, al fine di ammortizzare di questo la relativa voce ‘conto prestiti dei soci’, o vendendo la società sportiva ad altro mecenate. Se non si creano le condizioni per una di queste due opzioni, il legame tra il proprietario e il club, nel lungo termine, è destinato ad implodere. E’ in questa malaugurata circostanza che, verosimilmente, è da ricercare la causa principale delle dissoluzioni calcistiche del 1994, 2004, 2018 per il Calcio, e dell’anno in corso per il Rugby.
A tacitazione del “benpensantismo mecenatistico” almeno per il calcio, agisce dal 2018-19, il flair play finanziario della UEFA, che vuole evitare i fallimenti societari (in Italia dal 1990 sono stati più di cento!) e gli ingaggi “immorali”. Imponendo alla proprietà di un club, a pena di pesanti sanzioni, di spendere quanti sono i suoi ricavi, non è più permesso più di comprare giocatori con i soldi del proprietario, ma con i soli introiti rivenienti da permute di giocatori, da incassi nello stadio, dagli sponsor e dai diritti televisivi.
Dinanzi a questi imperativi, recuperando ed aggiornando le…interclassiste sottoscrizioni popolari, ecco che a L’Aquila si è fatta strada l’idea – nel Calcio, per il momento, ma si auspica anche nel Rugby e nelle altre discipline – della costituzione di un club piramidale, che al vertice abbia sì un imprenditore, ma alla sua base si avvalga di sostegni istituzionali (es., il ‘Fondo di Ricostruzione’, ad imitazione dell’antan ‘Pro Aquila’); del merchandising (es., il maglia day); dello stadio (‘I.Acconcia-Gran Sasso d’Italia’, da capitalizzare con negozi e museo sportivo); di consorzi economici (es. di peculiari vocazioni produttive); di un tifo dai valori etici (Supporters’Trust L’Aquila Me’). Tali partner e possessori di quote del club saranno in grado di eleggere i candidati alla governance sportiva, con un mandato a tempo o legato ai risultati agonistici e sociali.
Itinerario, questo, sì complesso e da gestire gradualmente, ma in cui si ravvede l’unica seria alternativa ai mecenati. O si vuol continuare a tirar dentro lo sport personaggi carpiti dalla politica per facile consenso verso chi guarda solo al “fatto di campo”? Sarà importante lavorare sul dato di ripartenza, che ha visto una mediazione comunale ben riuscita per il salvataggio in corso del Rugby, assai meno per il Calcio.
Milita in seconda serie l’Union rugby, il frutto delle idealità di SS Gran Sasso, Pol. L’Aquila, Asd. Old Rugby, L’Aquila Neroverde: un rassemblement, chiamato ad assorbire la simbologia della ‘squadra dai colori neroverde’, il cui eclissarsi non vorremmo trascinasse con sé i precedenti ed incoraggianti progetti di crowfunding e collegamento fra l’ovalia e la cultura cittadina, ma intanto si consegna il titolo di club più antico in attività per l’Abruzzo all’Asd Sulmona Rugby 1967. Non vorremmo, insomma, che il sodalizio protagonista del primo tricolore sportivo per la regione fosse stato sacrificato in nome di un troppo accelerato processo di fusione rugbystica territoriale, formulando i migliori auspici di una immediata promozione in Eccellenza nazionale alla agguerrita Union.
Il calcio, a motivo dell’irrituale non applicazione dell’art. 52 Noif è stato precipitato in 1a Categoria, di tenore provinciale, sicché L’Aquila, fra i capoluoghi regionali del football, resta al terz’ultimo posto, davanti solo a Trento ed Aosta. Si poteva declinare il diktat federale e ricercare la Eccellenza nel 2019-20, grazie al consolidamento societario che già accoglie virtualmente i Supporters’ Trust, e tutto ciò a tutela del calcio municipale, dal momento che la tifoseria ha elaborato un logo rossoblù ‘mediovale’ da dare in comodato ai gerenti della nuova AS L’Aquila.
In conclusione, i distacchi elitari sono inscritti nella vicenda locale e non solo, comprensibili per le problematiche morali e materiali del mondo agonistico nazionale, sebbene vada stigmatizzata l’assenza, dalla fine degli anni ‘60, della grande imprenditoria dal calcio, e, pressoché da sempre, dalle altre discipline.
Si avverte l’esigenza che la tifoseria torni co-protagonista, assieme agli operatori istituzionali ed economici, per il riscatto dello sport aquilano, in linea con i dettami del fair play finanziario dell’UEFA. Siffatta prospettiva sportivo-sociale apparirà tanto più realistica quanto più si farà strada in un contesto civile dove si concepisca il fenomeno agonistico nelle sue discipline più rappresentative quale aspetto saliente della propria storia comunitaria.
A cura di Enrico Cavalli