PESCARA – Non è la prima volta che le polveri fini (PM 10, 5 e 2,5) vadano a infilarsi tra le pagine degli organi di informazione, tra i risvolti della cronaca, che così si fa più sporca che nera, che si insinuino fin dentro le stanze del Palazzo e, ahimè, nel profondo dei nostri polmoni.
Le polveri fini sono sempre esistite; ma quelle di origine antropica solo da quando esiste l’uomo e con lui, da pochi secoli ad oggi, le città … motorizzate.
Il particolato, si sa, proviene principalmente dai trasporti, ovvero dai motori a combustione interna, endotermici, sulla cui inefficienza di rendimento si fonda, nel mondo, il più diffuso sistema di mobilità moderna, quello delle automobili.
L’elenco delle città affette da PM è lungo e dentro, da tempo, c’è anche la nostra, Pescara. E quando la concentrazione delle particelle supera le soglie fissate per legge, gli amministratori devono urgentemente intervenire, pena gravi provvedimenti a loro carico. Ma perché non farlo prima, allora? E come?
Spesso, e poco volentieri, quello che si fa è mettere in atto misure restrittive di mobilità: targhe alterne, domeniche ecologiche, stop alle auto più vecchie, semplicemente perché sono le azioni più immediate e praticabili da adottare, ma che sono solo sintomatiche e non curano la malattia, che poi regolarmente si ripresenta.
Ciò di cui invece c’è bisogno, per una completa guarigione da questo ricorrente male, sono misure strutturali, azioni che incidano sugli stili di vita, sulla mobilità nel suo complesso, sull’idea stessa di città.
Un tempo molto dilatato ci ha abituati a ritenere “normale” che tutte strade cittadine (a Pescara circa 300 km, come da qui fin quasi a Bologna) siano ricolme di auto parcheggiate e che per fare pochi km all’interno della città, anche meno di 5, la macchina sia il mezzo più idoneo.
Tra l’altro questo mezzo, che trasporta essenzialmente se stesso riuscendo a spostare solo e al massimo metà del suo peso (nelle migliori situazioni 1000 kg contro 500 kg di massimo carico), sovente muove usa sola persona, l’autista, ma occupa uno spazio enorme, sia da fermo che ancor più in movimento.
Neanche gli autobus eccellono da questo punto di vista, spostando a pieno carico al massimo 1/3, 1/4 del loro peso, ma con il grande vantaggio di avere un solo motore, di fare parecchi km e di non fermarsi mai, riducendo così enormemente l’occupazione dinamica dello spazio.
Inoltre, concetto tutt’altro che di minore importanza, dell’autobus è possibile usufruisce della funzione di trasporto attraverso il titolo di viaggio, mentre dell’auto siamo fino ad oggi costretti ad acquisire la proprietà, auto che solo incidentalmente e per poco tempo della sua esistenza espleta la funzione di trasporto (la maggior parte delle volte è parcheggiata, ferma lungo le strade).
Cosa ci fa capire questo? Che evidentemente spostarsi in città deve sottostare ad altre logiche, che valorizzino l’efficienza del trasporto e non il possesso del mezzo. Abbiamo bisogno della funzione e non della proprietà/possesso del veicolo. Ecco perché sempre di più si vanno diffondendo certe trategie di condivisione (sharing), che consentono di sfruttare al massimo le potenzialità dei mezzi, che devono soprattutto muoversi per spostare passeggeri da un punto all’altro, e non rimanere fermi una volta espletata la funzione. Il trasporto collettivo da questo punto di vista è il più logico da sviluppare nel contesto urbano dove le distanze sono minime e la concentrazione degli abitanti è alta. Diversamente sarebbe come muoversi con un motorino dentro casa, mantenendo le finestre chiuse.
Ma cosa comporta sostenere e implementare il trasporto pubblico o meglio collettivo? Significa certamente mirare ad avere un servizio efficiente e efficace. Le due caratteristiche però non devono essere disgiunte. Infatti se la frequenza di passaggio di un autobus come anche la velocità commerciale, due delle performance più richieste, sono alte ma il mezzo è “mezzo” vuoto, sicuramente il servizio non sarà efficace. E viceversa. L’auspicio quindi è che ci sia una convergenza dei fattori. Ma quando ciò accade evidentemente da qualche parte fuori dell’autobus è sicuramente successo che si è ridotto il flusso di traffico di automobili perché molti automobilisti avranno scelto un mezzo più efficiente. Più il travaso è massiccio e robusto, meno macchine ci saranno in giro, più aumenterà la velocità del mezzo collettivo e più alta sarà la sua efficacia. Solo questo può avvenire: il mezzo collettivo pubblico, o privato che sia, vince solo se perde quello privato monoutente.
Inoltre l’efficacia dell’uso del mezzo collettivo è ancora più alta se la sua funzione di trasporto viene espletata in prossimità dei servizi di più frequente utilizzo da parte degli utenti: più il servizio è lontano più è bassa l’utilità del mezzo che serve per raggiungerlo (fare 50 metri a piedi invece che 500 per raggiungere un negozio fa una bella differenza, specie se con la spesa da portare).
Pensare all’efficacia del trasporto collettivo (autobus) senza che ci sia una riduzione della mobilità privata monoutente (automobile) dovrebbe far venire più di un dubbio. Se accade l’una cosa deve accadere anche l’altra. Se così è, le strade diventano più libere, meno intasate, e più ospitali per i mezzi pubblici collettivi che saranno più competitivi e performanti.
E la bicicletta, quale ruolo ha in tutto questo scenario? È un mezzo di proprietà, monoutente, che sta fermo una volta parcheggiato!
Eppure sta diventando tanto strategico nella mobilita urbana che ci si sta addirittura affrettando a ricalibrare Il codice della strada mettendolo al centro di un rinnovato piano di attenzione.
Qualcuno (caterpillar) pensa anche che la bicicletta debba meritare un premio Nobel.
In effetti questo mezzo si pone su un livello funzionale diverso dagli altri: costa parecchio di meno, sia come acquisto che come manutenzione, non ha praticamente costi fiscali di gestione, non necessita di particolari autorizzazioni alla guida se non l’abilità a saperlo fare, non emette sostanze inquinanti, non fa rumore, non occupa spazi rilevanti, e poi ci fa fare movimento, mette di buon umore, aumenta la socializzazione, e così via con un elenco che potrebbe diventare lungo.
La bicicletta, inoltre, ha una grande versatilità, cominciando a vivere in questi anni una nuova giovinezza tecnologica e funzionale: ne sono esempio le pedelec, le biciclette a pedalata assistita. Per lo scarso o inesistente impatto ambientale, tutte le biciclette andrebbero incentivate nel loro uso urbano, con aree dedicate, come le zone 30 o le ZTL, o con percorsi riservati, come le piste o corsie ciclabili.
Il massiccio uso della bicicletta consente di ridefinire anche le logiche della sicurezza stradale, non solo personale ma collettiva, tanto da incidere anche sui prospetti organizzativi delle compagnie assicurative: perché pagare tanto una polizza se il rischio è basso?
La bicicletta fa bene anche all’economia della città: chi si sposta con le due ruote si ferma più spesso per svolgere mansioni e servizi, diversamente da chi è in auto che può soddisfare certe esigenze solo fermandosi, poche volte, in doppia fila.
Quando un’auto rimane imbottigliata nel traffico, resta ferma con il motore acceso: consumando combustile fossile e producendo inquinamento. La bicicletta si ferma solo al semaforo rosso e allo stop, e in quei casi il motore, che siamo noi, si mette in pausa, anzi, si spegne.
Chi si muove in bicicletta combatte da subito contro i cambiamenti climatici, semplicemente usandola, tutti giorni.
Una città a misura di bici è una città solidale e in sintonia con il pianeta, in cui gli abitanti fanno ogni giorno pace con le generazioni che verranno; una città più umana e più accogliente.
Facciamo strada alle bici e strade per le bici, quindi, ampie, spaziose, adatte al dialogo e alla compagnia, alla vicinanza e alla complicità: in breve tempo nella nostra città ed in tutte le città cambierà l’atmosfera, e con essa cambierà anche il clima. In meglio.