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La Madonna e la peste, il ricordo del 1656 ad Assergi

da Redazione

madonna della pisterola

ASSERGI – Un tempo nelle vie e nelle piazzette dei nostri villaggi erano presenti immagini ed edicole dedicate alla Madonna. Alcune sono ancora visibili, nonostante l’incuria e l’azione del tempo. La pietà popolare esprimeva in questo modo il proprio affettuoso legame con la mamma celeste, che era così chiamata a vegliare sui propri figli.

Ad Assergi, antico borgo abruzzese nel versante meridionale del Gran Sasso, della presenza di Maria vi è traccia in molti luoghi dell’abitato e della campagna. Ve n’è una, molto bella ed evocativa, in uno dei quartieri più suggestivi del villaggio, all’interno delle mura di cinta del borgo antico, bellamente restaurate negli ultimi anni, in quel centro storico che oggi è deserto e dove fino ad una cinquantina di anni fa viveva la maggior parte della popolazione.

Si tratta di una piccola edicola conosciuta con il nome di “La pistérola” o “La pistérvola”. I vecchi la chiamavano anche “La Madonna alla Bùscia” (la Madonna alla buca), ad indicare una porta vicina ricavata agli inizi del secolo scorso per consentire agli abitanti e alle bestie da soma di defluire più agevolmente in direzione delle stalle e della campagna. Il nome, “pistérvola”, stava a significare, nell’intenzione degli assergesi che costruirono il piccolo monumento, che in quel preciso punto dell’abitato il contagio si era arrestato, la peste se n’era andata, era volata via, per intercessione della Madonna, a cui si esprimeva perenne gratitudine.

Il terribile flagello, una delle tante pestilenze che funestarono la nostra penisola e il nostro continente nelle passate stagioni della storia (viva memoria si è conservata della “peste nera”, diffusasi in Europa tra il 1346 e il 1353 e di quella “manzoniana”, che colpì l’Italia settentrionale e in particolare il milanese nel 1630), accadde nel 1656, proveniente dall’allora capitale, Napoli, dove, su una popolazione di 450.000 abitanti, si contarono non meno di 200.000 vittime. Il contagio raggiunse la provincia dell’Aquila a metà luglio e il capoluogo a fine agosto. Durò molti mesi e fece un grandissimo numero di morti.

mura di assergi

Il grande storico aquilano Anton Ludovico Antinori (1704-1778) ne scrive a tinte fosche. Verso la metà di agosto fu anche la volta di Assergi, al tempo feudo dei duchi Caffarelli (l’illustre casato romano aveva acquistato il castello ai primi del ‘600). Il morbo crudele infierì tremendamente sulla popolazione. Nicola Tomei (1718-1792), cui si deve la prima ricerca storica organica sul paese, di cui fu preposto dal 1742 al 1764, riferisce che morì anche il parroco, Don Giovanni Spacone. Il suo successore, Don Giovanni Cipicchia, racconta in un suo manoscritto che in soli tre mesi perirono più di trecento persone e molte famiglie abbandonarono il villaggio per non farne più ritorno.

Una voce, forse proveniente da una triste memoria tramandata attraverso i secoli, vuole che molti cadaveri siano stati seppelliti nella scarpata esterna delle mura del Castello, nei pressi della Porta del Colle. Di sicuro molte vittime furono sepolte in cinque tombe ricavate sotto il pavimento della chiesa parrocchiale, in corrispondenza dell’attuale cappella di San Franco. Molti altri cadaveri trovarono posto sotto il pavimento della chiesa di Santa Maria in Valle, che sorgeva nei pressi dell’attuale sede del Parco Nazionale del Gran Sasso. Questo spiega anche l’attaccamento degli assergesi a quella piccola chiesa amministrata dai Frati Minori Osservanti, la cui demolizione, avvenuta nei primi anni ‘30 per far posto alla strada di collegamento con la costruenda Funivia del Gran Sasso, incontrò viva opposizione in gran parte della popolazione.

Ma torniamo all’edicola della “Pisterola”. È lecito supporre che al fondo di essa, in origine, fosse dipinta una Madonna con Bambino, poi corrosa dal tempo e sostituita da un’analoga composizione in tela stampata che risultava del tutto scolorita agli inizi degli anni ‘70. Per interessamento di Don Demetrio Gianfrancesco (1922-2004), zelante e compianto parroco nonché storiografo rigoroso, nel 1976 vi fu collocato «un pannello di maioliche riproducente una Madonna col Bambino addormentato in braccio» (D. Gianfrancesco, Assergi e S. Franco; Roma 1980, p. 73).

Si tratta di un particolare d’un dipinto, Riposo nella fuga in Egitto, realizzato nel 1673 dal pittore genovese Giovanni Battista Gaulli, detto Baciccio o Baciccia. Il celebre artista era nato a Genova nel 1639 e era morto nel 1709 a Roma, dove si era trasferito in seguito alla morte di tutti i suoi familiari a causa di quella stessa peste che un anno dopo, nel 1657, aveva funestato la città ligure. L’immagine fu scelta e riprodotta da Evelina Pogliani, una signora nata a Pola e sposata all’Aquila al marchese Fabrizio Pica Alfieri, donna di rara sensibilità artistica ed umana che lo scrivente, tanti anni fa, poco prima che venisse a mancare, ha avuto il piacere di conoscere. La scelta del soggetto risultò quanto mai appropriata. Fin qui la storia.

C’è da rimanere stupiti nello scoprire come in un angolo sperduto di un piccolo borgo possano essersi incrociati tanti destini e tanti sentimenti. Sullo sfondo della piccola nicchia, l’immagine riprodotta nel pannello è quella di una Maria che, con posa del tutto naturale, getta uno sguardo sereno su un Bambino Gesù dolcemente assopito tra le sue braccia: una sorta di graziosa e poetica variante della “Pietà”. Non c’è nessuna solennità: solo una mamma e un figlio.

In questi giorni di quarantene e di Quaresima, in questo nostro tempo che pareva avesse confinato nei «secoli bui» le pesti e i contagi insieme alle preghiere e alle benedizioni, ho rivisto con gli occhi del cuore questa piccola edicola mariana, semplice ed elegante, espressione di una pietà popolare che il tempo sembra non aver scalfito. Tre secoli non sono poi così tanti per chi non si lascia ingannare dai sensi: tre battiti delle ciglia di Dio, un’eternità che si bagna nella storia degli uomini. E quella donna che porta sul grembo prima il bambino che dorme, dopo il figlio ucciso, ci ricorda che la gioia, finché camminiamo sulla terra, ha sempre le radici a forma di croce.

A cura di Giuseppe Lalli

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