Nel corpo della pittura di Vittorio Amadio si consuma l’odissea della sua ricerca iconica, fra suture, nervature, accensioni, che coinvolgono materiali quali il legno, l’acciaio, la creta, dando la possibilità ad ognuno di essi di dichiarare il proprio punto di tensione e di rottura. È una Stimmung anticlassica e a nervi scoperti la sua, perché l’avventura poetica vissuta e patita dalla cultura postmoderna bisogna chiarirsela e chiarirla: capire come nell’equilibrio che è la vita, com’è nell’opera d’arte, possa calarsi la disarmonia, la mancanza di luce, l’interruzione – ci dice il filosofo Lyotard in Moralités postmodernes – del “ritmo vitale”.
In effetti, Amadio a partire dalle prime opere degli anni Ottanta rilancia la fase informale, aggredisce con rinnovata foga la tela, quasi trattandola come se fosse un murale, e del resto l’operazione non è certo pittorica in senso tradizionale, ma resta “plurima”.
L’art autre del fecondo artista ascolano si svolge nel sigillo di una totale libertà, anche e soprattutto espressiva, evitando i facili valori di superficie; o se la superficie s’impone, appare però subito dopo solcata da graffiti impietosi. Ma più che altro in grandi teleri quali Fuoco, elemento del 2009 e Terra, elemento del 2010 si levano e vibrano macchie policrome, segni rapidi, tesi a trasmettere un’oscillazione, un’ondulazione di piani: il tutto tenuto in un registro di magrezza ideativa, quasi che la materia sia vinta dallo spirito, o sia pronta ad esalare in energia.
Ora Amadio trova il coraggio di riprendere l’esercizio del dettato informale, ma in grande, nel megaformato di dipinti che sono come altrettanti varianti di un unico gigantesco caleidoscopio, inesauribile nel proporre aggregazioni sempre diverse. E come allora resistere alla tentazione di parlare, a questo proposito, di un Amadio postmoderno intento a rivisitare se stesso?
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