Il presule ha partecipato al Giubileo celestiniano rafforzando l’amicizia con la comunità aquilana, nata dopo il terremoto del 2009. Anche un gruppo della diocesi di Palermo ha varcato la Porta Santa di Collemaggio
L’AQUILA – Una Perdonanza Celestiniana diversa, sofferente, nella condivisione del dolore con le popolazioni di Amatrice, Accumoli, Arquata e Pescara del Tronto, colpite duramente dal terremoto che ha squassato quel lembo d’Italia dove quattro regioni s’incontrano: Lazio, Marche, Abruzzo e Umbria.
Annullati in segno di lutto dalla Municipalità aquilana tutti gli eventi che per una settimana fanno corona alla Perdonanza. Ridotto ai minimi termini, simbolico, il Corteo che accompagna la Bolla pontificia che indice il più antico giubileo della storia, voluto nel 1294 da papa Celestino V all’atto della sua incoronazione a L’Aquila e da 722 anni ogni anno celebrato, come la Bolla stessa dispone, dai Vespri del 28 agosto a quelli del 29, quando ciascun credente, sinceramente pentito e confessato, entrando nella Basilica di Santa Maria di Collemaggio, può ottenere il perdono da ogni colpa e pena. L’indulgenza plenaria gratuita e universale che quel Santo, pontefice per soli cinque mesi prima delle sue “rivoluzionarie” dimissioni, rese disponibile per l’intera umanità, per chiunque si fosse riconciliato con Dio. Da sette secoli quel messaggio di Riconciliazione e di Pace ogni anno s’irradia dalla città capoluogo d’Abruzzo, tanto cara a Celestino, con la Perdonanza. Quest’anno si sono riaperte le ferite del 2009, mai rimarginate agli Aquilani, nella condivisione delle sofferenze con le popolazioni provate dal sisma del 24 agosto scorso. Lo ha detto nella sua intensa e toccante omelia il Cardinale Edoardo Menichelli, aprendo tuttavia il cuore alla Speranza e alla Misericordia, prima di avviarsi a battere i tre colpi con il ramo d’ulivo del Getsemani che hanno aperto la Porta Santa della Basilica di Collemaggio, resa eccezionalmente agibile in una navata al passaggio dei fedeli, nonostante sia attualmente assoggettata a complessi lavori di restauro dai danni del terremoto grazie ad un finanziamento dell’ENI.
Alle celebrazioni della Perdonanza, su invito dell’Arcivescovo dell’Aquila, Mons. Giuseppe Petrocchi, ha partecipato Mons. Corrado Lorefice, Arcivescovo di Palermo. Giunto all’Aquila il 27 agosto, nel pomeriggio avrebbe dovuto tenere presso l’Auditorium del Parco la riflessione “La Gioia della Misericordia”, organizzata dall’Azione Cattolica diocesana ed inserita nel corposo programma civile della Perdonanza, poi annullato in segno di lutto. Anche Mons. Lorefice – che preferisce d’essere chiamato don Corrado – ha vissuto il dramma del terremoto, condividendo con gli Aquilani, e in particolare con la comunità di Paganica, i più duri momenti del post sisma, portando la sua solidarietà e la vicinanza della sua parrocchia, egli allora parroco del Duomo di San Pietro a Modica. Più volte è venuto a trovarci a Paganica, la più popolosa frazione dell’Aquila, con il direttore della Caritas diocesana, Maurilio Assenza, e con gruppi di suoi parrocchiani. Negli anni questa profonda sensibilità ed amicizia nella fede è diventata un vero e proprio gemellaggio tra la parrocchia di don Corrado e la parrocchia di Paganica. Una fraternità poi allargata alle due intere comunità di Modica e Paganica, alimentata da visite reciproche nei momenti più significativi della vita religiosa e civile delle due città. E proprio quando a fine ottobre dell’anno scorso divenne pubblica la notizia che papa Francesco inaspettatamente aveva nominato don Corrado Lorefice arcivescovo di Palermo – una delle diocesi più grandi d’Italia – a Modica era presente una delegazione di Paganica, guidata dal parroco don Dionisio Rodriguez, che visse in diretta quella straordinaria emozione comunitaria. E ancora, quando il 5 dicembre 2015 nella Cattedrale di Palermo don Corrado ricevette l’ordinazione episcopale con l’imposizione delle mani dal Cardinale Paolo Romeo, presenti tutti i vescovi della Sicilia, anche una delegazione di Paganica era lì presente al rito che commosse tutta Palermo.
Da quel giorno l’Arcivescovo di Palermo, don Corrado, aveva promesso che sarebbe venuto a L’Aquila e a Paganica a salutarci. Ne è stata occasione la Perdonanza, raccogliendo l’invito di Mons. Petrocchi. E così già nella sera di sabato 27 agosto, presso il Centro Parrocchiale “San Giustino”, don Corrado ha incontrato la comunità paganichese, Egli accompagnato da Mons. Paolo De Nicolò, già Prefetto della Casa Pontificia e padre spirituale negli anni di sua formazione teologica a Roma. E’ stato un incontro di grande amicizia, come sempre. Don Corrado, con singolare spontaneità, ci ha fatto vivere con le sue confidenze l’emozione della sua nomina e ordinazione, l’incontro con Papa Francesco e le parole del Santo Padre d’esortazione al ministero episcopale, nel il segno del “Pastore che ha l’odore delle sue pecore”, prossimo ai poveri e agli ultimi. L’incontro con la comunità di Paganica, salutato da don Dionisio e da don Federico, è stato accompagnato da un’agape fraterna, nella bellezza dell’amicizia. L’indomani mattina, domenica 28, don Corrado ha presieduto la Santa Messa nella Chiesetta di San Bartolomeo del Monastero di Santa Chiara a Paganica, concelebranti Mons. Paolo De Nicolò, don Vasco Paradisi, don Federico Palmerini.
Con le Clarisse don Corrado ha una relazione spirituale intensa, sia nella corrispondenza che negli incontri diretti durante le sue visite a Paganica. La celebrazione eucaristica, nella bella chiesa adorna da lacerti d’antichi affreschi e con moderne opere di vibrante significato, dove al momento è custodita l’urna con le spoglie incorrotte della fondatrice del monastero, la Beata Antonia da Firenze, fin quando l’adiacente Chiesa del Carmine non vedrà la prossima conclusione dei lavori di ricostruzione dal sisma – sotto le cui macerie perì la badessa Madre Gemma Antonucci -, è stato solo il prologo dell’affetto che la comunità di Paganica nutre per il Presule siciliano. Infatti, l’Eucarestia presieduta nella Chiesa degli Angeli Custodi, con don Dionisio e don Federico, ha recato segni di evidente commozione e di molti occhi lucidi, durante l’omelia di don Corrado e nei saluti che hanno concluso la celebrazione. Occhi lucidi di commozione e di affetto condiviso, specie quando a nome della comunità paganichese don Dionisio ha consegnato in dono a Mons. Lorefice il bastone Pastorale, con legno di noce locale, realizzato artisticamente dall’artigiano Achille Buoncompagno.
Al tramonto, davanti la Basilica di Collemaggio, dopo l’arrivo del Corteo e la lettura della Bolla, la concelebrazione eucaristica presieduta dal Cardinale Menichelli – legato pontificio ed Arcivescovo di Ancona Osimo – con Mons. Giuseppe Petrocchi, Mons. Giuseppe Molinari (Arcivescovo emerito dell’Aquila), Mons. Corrado Lorefice, Mons. Orlando Antonini (Nunzio apostolico), Mons. Paolo De Nicolò, Mons. Angelo Spina (Vescovo di Sulmona- Valva) e Mons. Pietro Santoro (Vescovo dei Marsi), quindi il rito di apertura della Porta Santa che ha dato avvio alla Perdonanza. Poi la Veglia dei giovani, protrattasi nella notte, e dal primo mattino del 29 agosto le celebrazioni durante l’intera giornata, con le Messe dedicate. Mons. Lorefice ha celebrato e presieduto, alle 10, la Perdonanza dei Militari e delle Forze dell’Ordine. Commossa e numerosa la folla di fedeli a lucrare l’indulgenza di S. Pietro Celestino, posto accanto all’altare nella sua urna di cristallo. In mattinata, intanto, era giunto all’Aquila da Roma, dove si era recato per l’Anno della Misericordia, il gruppo di fedeli, una cinquantina, proveniente dalla diocesi di Palermo. Per loro un’esperienza straordinaria vivere e conoscere la Perdonanza, insieme al loro Arcivescovo. Sotto la provetta guida di Angelo De Nicola, giornalista e scrittore, il gruppo ha iniziato la visita alla città partendo dal magnifico Monastero di San Basilio, dove vivono in clausura le ultime Celestine, mentre due altre loro comunità conducono missioni in Africa, a Bangui, e nelle Filippine. Quindi la visita guidata ai monumenti già restaurati della città, con le meraviglie architettoniche dell’Aquila, quantunque molte siano le ferite del sisma ancora da guarire. Dopo la Messa vespertina è seguito il rito di chiusura della Porta Santa di Collemaggio, che verrà aperta di nuovo il 28 agosto 2017 per la 723^ Perdonanza, mentre la Bolla di Celestino, tornata nelle mani del Sindaco dell’Aquila, rimarrà custodita nei forzieri del Comune.
La comunità aquilana ha fortemente apprezzato la testimonianza d’amicizia e fratellanza espressa da Mons. Lorefice a nome dell’intera diocesi di Palermo, presente con il gruppo di rappresentanza delle sue 179 parrocchie. Una bella testimonianza, viva calorosa commossa e intensa. Siamo davvero assai grati a Mons. Lorefice per la sua premurosa attenzione verso gli Aquilani, mentre ancor più è autentica e bella è la sua partecipazione alla Perdonanza con un gruppo di pellegrini della sua diocesi. Un gesto di condivisione nella fede che si spera venga emulato anche da altre diocesi. La decisione della Municipalità d’annullare tutto il programma della Perdonanza non ha, come si diceva, consentito di svolgere l’incontro che Mons. Corrado Lorefice avrebbe dovuto tenere nel pomeriggio di sabato. Tema della riflessione per la Perdonanza: “La Gioia della Misericordia – Per conoscere e vivere nella letizia della condivisione”. Don Corrado ci ha tuttavia lasciato il testo della sua riflessione, che volentieri si condivide per chi voglia riportarlo integralmente o in parti.
“Quale miglior modo per parlare della gioia della misericordia, che dare voce a chi l’ha provata, a chi ne ha fatto esperienza, a chi è stato rigenerato alla vita in virtù dell’amore misericordioso di Dio testimoniatoci dal Crocifisso risorto. Zaccheo per esempio! Ascoltiamo lui. Per tanti di noi oggi è un discreto amabile condiscepolo che accompagna l’arduo ma entusiasmante cammino dietro al Maestro. E mi piace leggere l’episodio che porterà Zaccheo a sperimentare la gioia prorompente e trasformante della misericordia di Dio alla luce del Salmo 85. Perché è veritiera la parola del Salmo – che troverà compimento nella carne del Nazareno, colui che porta su di sé il peccato del mondo (cfr. Gv 1, 29): “Dio ama la sua terra, e fa ritornare i deportati di Giacobbe, perché Dio porta la colpa del suo popolo, cancella tutti i suoi peccati, ritira tutto il suo furore e recede dall’ardore della sua ira. Mostra il suo amore, dona la salvezza, perché il suo popolo abbia gioia in lui” (cfr. Sal 85, 2-7). A Gerico, dopo aver conosciuto la tristezza dell’idolatria del denaro, grazie a Gesù, Zaccheo ritroverà la vera grandezza e ricchezza di un ebreo: essere e vivere da «figlio di Abramo», da erede delle promesse. Dopo aver conosciuto l’esilio dell’egoismo e la schiavitù della brama e dell’accumulo dei beni mondani, Gerico, nella valle dove scorre latte e miele, sarà per lui patria dell’incontenibile magnanimità di Dio e terra della gioia della condivisione.
Quando sopraggiunge Gesù nella vita e nella città degli uomini
Attorno a Gesù giunto a Gerico si stringeva la folla – quasi un rimando agli esodati d’Egitto allorché arrivarono nella meravigliosa pianura di Gerico, alla sospirata e dolce terra promessa da Dio ad Israele, o agli esuli del secondo esodo avvenuto per mano dei babilonesi. Gesù sfama la folla con un pane essenziale di parola, guarisce dando di nuovo la vista ai ciechi (cfr. Lc 18,42). «Allora si apriranno gli occhi dei ciechi» aveva profetizzato Is 35, 5, in un contesto storico in cui ormai i re di Israele inclinavano a fare ciò che è male agli occhi del Signore e imponevano il loro giogo ai poveri e agli esclusi del paese. Gesù rende presente un Dio Goel, redentore, liberatore, dalla parte dei poveri ma che va incontro anche ai peccatori. Sconvolgendo il comune sentire religioso, a tal punto che il Battista, avendo sentito parlare delle opere di Gesù, dal carcere manderà i suoi discepoli a domandargli: «“Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?”» (Mt 11, 2-3), tradendo un momento di evidente crisi dopo averne proclamato la messianicità (cfr. Gv 1, 29-34). Ora, dentro le mura, essendo arrivato Gesù, la calca è impenetrabile. Ed è proprio qui che emerge un personaggio di nome Zaccheo: “il puro, il giusto”; un nome che, riferito a lui, sembra essere un ossimoro, essendo un ricco e potente pubblicano, esattore delle tasse, un corrotto asservito al potere dei romani e alla brama del denaro, dissanguatore dei poveri. Gesù nel capitolo precedente aveva affermato: «Quant’è difficile, per coloro che possiedono ricchezze entrare nel Regno di Dio. È più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel Regno di Dio!» (Lc 18, 24-25). Ma da lì a poco Gesù riscatterà Zaccheo da questa triste sorte e il capo dei pubblicani conoscerà la gioia del Regno.
L’esperienza della misericordia riconsegna Zaccheo all’identità filiale, lo libera dalla schiavitù della brama e dell’idolatria dell’io e del potere, lo riscatta dalla falsa convinzione di poter 3 vincere accumulando denaro la sua piccola statura umana, la fragilità antropologica della morte. Gesù non incontra Zaccheo a partire da una categoria etica: peccatore! Lo incontra, come persona, senza nessuna precomprensione. In Gesù Dio incontra gli uomini, celebra un incontro, lo vive in profondità. Non vede prima il peccato. Non va a caccia del peccato. Ma vuole l’incontro, volto di fronte a volto. Incontra la persona. Non rinchiude l’altro in una categoria. La persona non può essere definita dal peccato. Con la sua pratica di umanità Gesù si prende cura dell’altro, entra in relazione con le donne e gli uomini che incrocia con il suo sguardo penetrante. Una vera cura è globale, è l’istaurarsi di un rapporto etico e umano. E così rende presente la misericordia del Padre.
La povertà antropologica, è costantemente sotto i nostri occhi, vi conviviamo. Della fragilità umana la manifestazione massima è la morte. Siamo tutti Zaccheo. Portiamo nel nostro patrimonio genetico il dramma di Zaccheo: piccoli, fragili, ingiusti, mortali. Ma inevasa rimane una intima domanda di vera grandezza e di vera gloria, cioè di pienezza di vita, di santità. Nasciamo piccoli e nella nudità, viviamo tutti nel peccato e nella precarietà – cosa è certo nella nostra vita?! – moriamo tutti nella solitudine. La morte ci avvilisce e rende la nostra condizione umana alienata. La morte ci fa paura e ci porta all’alienazione. Ma Gesù ci ha liberati dalla paura della morte assumendo la morte. Eb 2, 14-15: «anch’egli ne è divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita». Paurosi della morte, avvinti da un narcisismo sfrenato, accumuliamo ricchezze per preservarci e per assicurarci il futuro. L’accumulo è una strategia contro la morte. La ricerca della vertigine (che oggi prende forma nell’uso smodato di alcol e di stupefacenti e nella nevrosi del sesso), farsi una posizione, acquistare potere, è uno sfuggire alla morte. Non si comprende che la povertà antropologica va accettata. «Come l’erba sono i giorni dell’uomo, come il fiore del campo, così egli fiorisce» (Sal 102, 15) si legge nella letteratura biblica sapienziale. Zaccheo è un ricco e un potente, ma «piccolo di statura»!
La misericordia, l’incontro con Chi dà la vita mentre noi siamo ancora peccatori (cfr. Rm 5, 8), ci riconsegna alla vera gioia, quella che prova l’uomo autenticamente libero, affrancato dalla schiavitù dell’io bramoso e idolatrico; la gioia della misericordia non è una mera, momentanea esperienza emotiva religiosa, ma fondamento della vera felicità perché essa ci libera dalla falsità di vita che ci costruiamo tutti come è accaduto a Zaccheo. Egli ha rinnegato la sua identità di figlio di Abramo, di erede delle promesse, pensando di innalzarsi con le sue forze ad una statura antropologica di potenza e di forza, di immortalità. Eppure è questa sua fragilità, la sua identità creaturale, che lo ha reso agile a salire su un grande albero di sicomoro al fine di emergere dalla folla che gli impediva di vedere Gesù, rivelandosi – la piccolezza – condizione preziosa, non da sfuggire bensì da valorizzare.
Un incrocio di sguardi
C’è comunque una sorta di istinto arguto in Zaccheo che lo porta a “correre avanti”, almeno per vedere «quale fosse Gesù». Forse anche in Zaccheo si è verificato quello che affermava Henri Nouwen: «Nel profondo del cuore noi già sappiamo che il successo, il prestigio, la fama, il potere e il denaro non ci danno la gioia e la pace profonda a cui aspiriamo. In certo modo, proviamo forse persino una certa invidia per quelli che hanno respinto tutte le false ambizioni e hanno trovato una realizzazione più profonda nel loro rapporto con Dio. Sì, possiamo davvero assaporare il gusto di 4 quella misteriosa gioia nel sorriso di quelli che non hanno niente da perdere» (L’abnegazione di Cristo, Queriniana, Brescia 2008, 22).
Ma il ricco e potente pubblicano non sa quello che lo aspetta. «Gesù alzò lo sguardo» annota Luca. Il suo sguardo si illumina, manifesta compassione, sente viscere di misericordia, rifulge nel suo volto il volto del Padre che accoglie pieno di esultanza il figlio ritrovato, desideroso di liberare la sua profonda gioia preparando e invitando tutti a un banchetto festoso di grasse vivande e di vini succulenti. Il salmista si domanda: «“Chi ci farà vedere il bene?”. Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto» (Sal 4, 7). Quella luce del volto di Gesù che emana calore e gioia riconsegna alla gioia esistenziale e teologale Zaccheo immerso nell’arida solitudine della sua alienante e menzognera ricchezza.
Non una mera visione per acquisire un’informazione diretta ma una sincronia di sguardi che celebra l’incontro. Un incontro cha cambia la vita. «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). Quella corsa in avanti era dovuta al suo cuore umano che neanche la fredda e illusoria ragione calcolatrice era riuscito a congelare: un cuore capace di cogliere il discreto caparbio invito di Dio, come sembrano affermare le parole dell’orante del Sal 27: «Il mio cuore mi ridice il tuo invito: “cercate il mio volto!”, il tuo volto, Signore, io cerco, non nascondermi il tuo volto». Ecco perché Gesù si espone direttamente e consegna il suo volto a Zaccheo, tutta la sua persona, come ci direbbe Emmanuel Lèvinas. «Alzò lo sguardo verso di lui». E accoglie il volto di Zaccheo. Il volto è domanda che chiede assunzione di responsabilità. Il volto di Zaccheo suscita la responsabilità messianica di Gesù. Il volto di Gesù suscita la responsabilità filiale/fraterna di Zaccheo. Lui è venuto perché Zaccheo sia un figlio di Abramo non un seguace di mammona, un uomo libero e non uno ‘schiavo carnefice’! Un figlio e un fratello. Un uomo chiamato a praticare la giustizia, non ad essere un oppressore. Chiamato alla condivisione e non all’isolamento della brama predatoria. Sopraggiunge Gesù con il suo “E-vangelo” e la potenza mortifera dell’ego che tiranneggia e ridicolizza la vita del pubblicano Zaccheo viene neutralizzata.
«Non ritornerai forse a darci vita, non gioirà più il tuo popolo in te?»
Zaccheo scende in fretta dall’albero. Ricolmo di gioia ospita Gesù che desidera “rimanere” (méno), “restare” a casa sua. In lui si ripete il tratto inedito di Dio misericordioso che raggiunge l’altro nella sua estrema distanza. E per questo di un ricco peccatore, di colui che non avrebbe mai potuto passare dalla cruna di un ago, Gesù ne fa un discepolo del Regno, un banditore della gioia della misericordia del Dio che prova viscere di compassione per tutti i suoi figli, e specialmente per i poveri e i peccatori. Il Regno di Dio nel suo sopraggiungere nella storia delle donne e degli uomini è giustizia e pace e gioia nello Spirito Santo (cfr. Rm 4, 17). Il corrotto e il Maestro insieme. Sentiamo ancora il riverbero della mormorazione scaturita dal cuore indurito dei religiosi moralizzatori che sarà però sovrastato dall’espressione della meraviglia per la decisione espressa pubblicamente da Zaccheo di rimediare alla sua avidità e alla sua corruzione che ha seminato sofferenza e oppressione.
«Il Signore annuncia la pace al suo popolo, ai suoi adoratori, perché non ritornino alla loro follia»
Restituire quattro volte tanto e dare la metà dei suoi beni ai poveri è una scelta notevole, ma indica che comunque Zaccheo rimane ricco. Nondimeno egli «fa molto di più che pagare la pena di un pubblicano che fa un uso spregiudicato del denaro: egli è un uomo che si converte. Esce, cioè, dalla mens, che hanno tutti coloro che sono dentro un sistema corrotto, dove ciò che conta è soltanto avere di più, al prezzo del sacrificio delle persone e della loro vita. Zaccheo si è accorto che la vita è fatta di fraternità, di famiglia, di ricchezza condivisa» [I Vangeli tradotti e commentati da quattro bibliste (R. Virgili, Luca), Ancora, Milano 2015, 1149]. La salvezza realmente è entrata nella sua casa. Perché ormai conosce la gioia della solidarietà. La gioia del perdono e della misericordia, genera la gioia della condivisione. Con l’incarnazione, con lo scambio avvenuto in Gesù, la condizione creaturale è stata definitivamente assunta da Dio proprio perché il Figlio di Dio non ha considerato un possesso geloso, una preda (Fil 2, 6: harpagmós) la sua forma divina ma se ne è spogliato fino ad assumere la condizione dello schiavo meritevole di essere appeso al “legno” perché ritenuto indegno del cielo e della terra, reietto da Dio e dagli uomini. Quella di Gesù è una kenosi di condivisione: la ricchezza di Dio che si riversa sugli uomini (cfr. 2 Cor, 8, 9).
«Mostra a noi il tuo amore, Signore, e dona a noi la tua salvezza»
In Gesù, come ricordava papa Francesco ai giovani in preparazione alla GMG di Cracovia, incontriamo il volto gioioso di Dio Padre, «la gioia di Dio, la gioia che Egli prova quando ritrova un peccatore e lo perdona. Sì, la gioia di Dio è perdonare! Qui c’è la sintesi di tutto il Vangelo. “Ognuno di noi è quella pecora smarrita, quella moneta perduta; ognuno di noi è quel figlio che ha sciupato la propria libertà seguendo idoli falsi, miraggi di felicità, e ha perso tutto. Ma Dio non ci dimentica, il Padre non ci abbandona mai. È un padre paziente, ci aspetta sempre! Rispetta la nostra libertà, ma rimane sempre fedele. E quando ritorniamo a Lui, ci accoglie come figli, nella sua casa, perché non smette mai, neppure per un momento, di aspettarci, con amore. E il suo cuore è in festa per ogni figlio che ritorna. È in festa perché è gioia. Dio ha questa gioia, quando uno di noi peccatore va da Lui e chiede il suo perdono” (Angelus, 15 settembre 2013)». «Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione» (Lc 15, 10).
Essere discepoli oggi
Seguire Gesù e annunciare il suo Vangelo: questo è il compito dei discepoli di Cristo di ogni tempo. Ma oggi più che mai! Se questo – e solo questo – facciamo, fedeli alla terra e ai compiti che ci ha affidato la storia, allora le donne e gli uomini del nostro tempo conosceranno vie di libertà, un nuovo umanesimo, perché conosceranno la gioia della misericordia. Incontreranno nei nostri volti un Dio che prova gioia e desidera la gioia degli uomini. Per questo è il Misericordioso, il Veritiero, colui che non solo non illude ma colui che nel suo Figlio morto e risorto ha la santa letizia di liberarci dalla paura della massima fragilità di noi umani che è la morte. Quella paura che ci rende soli, arrivisti, rapaci, insipienti; quella angoscia che genera divisione, competizione, violenza, ingiustizia, prevaricazione, emarginazione, respingimenti, odio, guerra, sofferenza e morte degli innocenti, dei piccoli, dei poveri, dei vinti della storia, cioè dei prediletti di Dio.
E tra i prediletti di Dio – non lo dimentichiamo – ci siamo noi tutti, veri peccatori, chiamati anche noi a gustare la gioia della misericordia ricevuta e donata. Come scrive il teologo Giuseppe Ruggieri, «Quando l’uomo ritrova la capacità di confessare la misericordia continuata di Dio, allora soltanto ritrova se stesso come dono, come grazia, e vive nella gratitudine e nella gioia che nasce da essa, quella gioia che abbiamo sperimentato fin da bambini quando siamo stati perdonati da coloro che ci amavano. Allora soltanto l’uomo vive nel rispetto e nella venerazione dell’altro e delle cose, giacché l’amore “non manca di rispetto e non cerca il suo interesse (1Cor 13, 15). […] Allora, secondo la bellissima metafora presente non soltanto nel cristianesimo, l’uomo “ri-nasce”, riceve cioè nuovamente se stesso, come aveva ricevuto se stesso nella prima nascita che aveva negato con il suo atto di predazione, rinnegando il dono che l’aveva fatto nascere, che l’aveva dato a se stesso» (Introduzione, in Monastero di Bose, La chiesa peccatrice perdonata, Qiqajon, Magnano 2016, 18)
Conclusioni
Solo cristiani rigenerati dalla misericordia potranno ritrovare il linguaggio del Vangelo che annuncia la pace di Dio con gli uomini e la vicinanza del suo Regno. Papa Francesco per questo ha chiamato la chiesa a un movimento di conversione, a gustare lei per prima la gioia della misericordia. Non c’è annuncio del Vangelo se il Vangelo non cambia la vita dei cristiani e delle nostre comunità. Per questo siamo qui ancora una volta a celebrare la Perdonanza Celestiniana! Voglio avvalorare questo pensiero conclusivo riprendendo una pagina che il pastore luterano Dietrich Bonhoeffer scrisse per la circostanza del battesimo del proprio nipotino, nel maggio del 1944, dal carcere in cui era imprigionato per la propria partecipazione alla congiura contro Hitler in obbedienza alla sua coscienza di discepolo del Signore.
«Che cosa significhi riconciliazione e redenzione; vita in Cristo e sequela di Cristo – tutto questo è così difficile e lontano, che quasi non osiamo più parlarne. Nelle parole e nei gesti tramandatici noi intuiamo qualcosa che è del tutto nuovo, qualcosa che sta completamente cambiando, senza poterlo ancora afferrare ed esprimere. Questa è la nostra colpa. La nostra Chiesa, che in questi anni ha lottato solo per la propria sopravvivenza, come fosse fine a se stessa, è incapace di essere portatrice per gli uomini e per il mondo della parola che riconcilia e redime. Perciò le parole d’un tempo devono perdere la loro forza e ammutolire, e il nostro essere cristiani oggi consisterà solo in due cose: nel pregare e nel fare ciò che è giusto tra gli uomini. Ogni pensiero, ogni parola e ogni misura organizzativa, per ciò che riguarda le realtà del cristianesimo, devono rinascere da questo pregare e da questo fare. […] Sarà un linguaggio nuovo, forse completamente non-religioso, ma capace di liberare e redimere, come il linguaggio di Gesù, tanto che gli uomini ne saranno spaventati e tuttavia vinti dalla sua potenza, il linguaggio di una nuova giustizia e di una nuova verità, il linguaggio che annuncia la pace di Dio con gli uomini e la vicinanza del suo Regno. “Si meraviglieranno e temeranno per tutto il bene e per tutta la pace che farò loro” (Ger 33, 9). Fino ad allora la causa dei cristiani sarà silenziosa e nascosta; ma ci saranno uomini che pregheranno, opereranno ciò che è giusto e attenderanno il tempo di Dio. Possa tu essere tra questi e si possa un giorno dire di te: “il sentiero del giusto è come la luce, che si fa sempre più chiara fino a giorno pieno” (Prov 4,18)» (Resistenza e Resa, Queriniana, Brescia 2002, 406)”.
+ Corrado Lorefice – Arcivescovo di Palermo
(a cura di Goffredo Palmerini)