PESCARA – Si è svolto ieri mattina presso la Sala Tosti dell’Aurum l’incontro-dibattito “Oltre la paura, statistiche, riflessioni e testimonianze su un sentimento dominante del nostro tempo”, durante i lavori sono stati resi noti i risultati di un’indagine inedita, svolta nel mese di settembre dal Dipartimento degli Studi Giuridici e Sociali dell’Università d’Annunzio su “Le Paure dei Pescaresi”, a cura del professor Antonello Canzano, indagine che ha avuto un campione di 700 interpellati su vari argomenti riassunta di seguito con una sintesi degli interventi.
L’incontro ha avuto tre ospiti d’eccezione, relatori, ma anche testimoni del binomio fra la paura e il proprio campo di azione, quali: Adolfo Ceretti, ordinario di Criminologia dell’Università Bicocca di Milano, autore con Roberto Cornelli di un libro illuminante sul tema, “Oltre la Paura”; Luigi Savina questore di Milano e Francesco Ciccio La Licata, giornalista, scrittore, fra i massimi esperti del fenomeno di Cosa Nostra e autore di una straordinaria biografia del giudice Giovanni Falcone del quale era amico.
Il questore di Milano Luigi Savina ha parlato della paura nella sicurezza: “Dobbiamo capire perché la paura oggi domini – ha detto – malgrado nel 2013 si sia registrato dall’inizio del secolo il minor numero di omicidi, un numero che nel 2014 è diminuito ancora, insieme con le rapine e una serie di altri reati, ma ciò non incide sul problema della paura. Ciò che influisce è la paura come percezione di sicurezza, si ha paura di non essere al sicuro, non ci si sente tali. E’ compito e responsabilità della politica non generare insicurezze su cui si innesti la paura per farsi leva e affermarsi”.
Attraverso il racconto di Francesco La Licata dei suoi esordi giornalistici a Palermo, è stato poi toccato il rapporto fra paura e media: “A Palermo c’era la mafia o i sindacati e non era difficile scegliere con chi stare – ha esordito – Paura e media, tutto contribuisce ad alimentare questo clima di incertezza che è diventato enorme, l’enfasi usata in certe titolazioni riguardo alla politica, ad esempio: dibattiti che diventano “guerra”. Oppure in economia: chi non sapeva nulla dello spread, a un certo punto ha avuto paura di tutto perchè era diventato una sorta di spettro. O le calamità, ricordo la Sars, in Italia abbiamo avuto più morti di tubercolosi, eppure aspettavamo la catastrofe incombente. Ecco, dare le notizie corredandole con degli argomenti che possano dare un armamentario necessario per affrontare la paura, senza farla cadere in fobia è un modo per affrontare questi tempi. Ma molto spetta anche alla politca che deve fare una scelta di grande saggezza, perché a furia di creare paure si formerà un boomerang che ci renderà claustrofobici. Infine c’è la paura dei giornalisti. Questo è un paese dove i giornalisti sono stati ammazzati, dal posto da cui vengo ne sono morti nove. Queste morti sono uno spreco pazzesco: perché chi scrive i fatti è solo l’ultimo anello di notizie che arrivano dalle fonti, che siano i magistrati, i poliziotti, i politici. La condizione di libertà di un Paese incide sulla paura, più libertà c’è meno paura si prova”.
L’indagine in cifre a cura del professor Antonello Canzano: “La paura che si rivela dall’indagine è un sentimento semplice, non avendo una rilevazione precedente non possiamo dire se le paure evidenziate sono persistenti o momentanee. L’indagine è stata svolta a settembre su 700 persone di Pescara, scelte in diversi quartieri a seconda della densità abitativa, per il 48 per cento donne e il 52 per cento uomini, che ci hanno accolto con serenità e tranquillità e grande disponibilita parlare.
Nella griglia abbiamo evidenziato le cinque paure prevalenti: la maggiore è il disagio economico, il 51,4 per cento (fra cui la perdita del posto di lavoro, il timore che il reddito non basti, il costo della vita); segue la paura generata dalla criminalità, il 23,4 per cento (non si teme la mafia, ma la microcriminalità, ovvero lo scippo, borseggi, furti, agressioni e rapine); terza paura l’inquinamento ambientale, 14,5 per cento (un fenomeno storico della città di Pescara per aria e acquan e sicurezza dei cibi); segue l’immigrazione, l’8,5 per cento (non si tratta di razzismo, ma del timore che ingrossino le fila della criminalità, non ritenendo capaci le strutture pubbliche e private di accogliere; il terrorismo internazionale ha una minima parte, l’1,8 per cento e a chiudere lo 0,4 la paura delle catastrofi naturali. Alcune singolarità: gli uomini hanno più paura del disagio economico, le donne della microcriminalità”.
L’intervento del sindaco Marco Alessandrini: “Da Aosta a Palermo gli italiani hanno paura. Ciò che guida le loro scelte non sono più i desideri, ma la paura. Ma di cosa hanno paura? Non c’è più violenza oggi che in passato, non viviamo in una società in cui si aggredisce, si assalta, o si uccide di più che in passato, se poi pensiamo al secolo scorso e alle due guerre mondiali, allora non possiamo che prendere atto che oggi in Italia viviamo in un periodo di pace e di tranquillità. La vera differenza la fanno la tv e la comunicazione globale, che moltiplicano all’infinito ogni singolo episodio di violenza e con questo le nostre ansie e le nostre paure, provocando la sensazione che non esiste altro e creando spesso meccanismi di emulazione.
Perché si alimenta la paura? La paura è tipica del nostro tempo, un tempo di semplificazioni assolute, di esagerazioni dettate dalla pancia e di tragica mancanza di buon senso. Chi alimenta la paura lo fa per tornaconto personale, insensibile al problema di creare inutile allarmismo, alla ricerca di un consenso che pare proprio volatile, dal momento che i voti acquistati con la demagogia sono voti avvelenati ed espressione di un vuoto politico cui si supplisce con appelli all’emotività, con il dar voce, spesso crudamente, a “ciò che pensa la gente”, senza tuttavia offrire ai sentimenti e alle opinioni suddette la minima soluzione sensata. Chi brama il potere sa che l’arma politica più forte è la paura. La studiosa johanna bourke in un celebre saggio pubblicato qualche anno fa (paura. una storia culturale) ci ha rivelato che propagando la paura negli strati profondi di una comunità si ha il fine di costruire un capro espiatorio, un nemico pubblico numero uno, la cui rimozione libererebbe tutti dalle angosce e dai pericoli. Proprio per questo, per il fatto di essere ben consapevole di questo meschino e odioso meccanismo, che distribuisce vantaggi a pochi, causando tensioni e conflitti nella collettività.
Si è delineata (specie a sinistra) una tendenza a negare l’esistenza della questione sicurezza urbana e a considerare inutili le politiche di rassicurazione. In tale prospettiva, l’unica operazione legittima sarebbe quella di svelare ai cittadini una sorta di verità nascosta, vale a dire che l’allarme sociale è uno stato indotto dalle elite dominanti per mantenre il potere o per celare scottanti problemi sociali, quale ad esempio la perdurante crisi economica. In prospettiva diametralmente opposta c’è chi considera le paure come l’unico perno su cui poggiare gli interventi nel campo penale, oltre che come principale fattore legittimazione della classe politica.
e’ una versione condivisa da molti che appiana la tradizionale opposizione tra destra e sinistra, depoliticizza la sicurezza fino a trasformarla in diritto individuale, esigibile immediatamente nelle aule giudiziarie e nel mercato dei beni e servizi. Lo slogan diviene “la sicurezza non è di destra, né di sinistra”, l’unica risposta è agire, senza rifelssioni, né mediazioni. In tutta europa e in america aleggiano, con toni e modalità diverse ma sempre più convergenti, le proposte di aumentare le pene, di incrementare la presenza e la visibilità delle forze di polizia (anche dell’esercito), e di adottare una politica di rigore nei confronti del degrado e della inciviltà di cui gli strenieri sarebbero peraltro principali portatori.
La paura, sentimento collettivo che dà fondamento e legittimazione alle politiche securitarie, può essere vista sotto un’altra luce. Una paura non più statica, ma euristica, che muove a riflettere, abbandonando percorsi già tracciati e alla ricerca di nuove consapevolezze.
In età moderna, il valore della fraternità è stato proclamato sul piano politico, specie a partire dalla rivoluzione francesce, in simbiosi con quelli di libertà e uguaglianza. Libertà e uguaglianza sono state riconsociute in maniera espressa in molte costituzioni moderne, mentre, al contrario, la fraternità è stata per lo più collocata su un piano sociale e morale. La società oggi è lontana dalle relazioni di fraternità, ed è semmai più aderente ad una reciprocità fredda, fondata sulla ragione utilitaristica, e la ricerca individuale del benessere orienta verso una fraternità debole.
Nelle democrazie occidentali, infatti, si assiste a sempre più crescenti rivendicazioni individuali, che tendono ad escludere gli altri e limitarne i diritti. Il mio diritto a una casa popolare, all’iscrizione di mio figlio all’asilo nido e persino a ricevere adeguate cure mediche, si declina in contrapposizione all’altrui diritto, piuttosto che sostenere un a richiesta politica di più case popolari, di più asili nido e di una maggiore efficienza del sistema sanitario. Si fondano così legami microcomunitari sulla paura di perdere le proprie tradizioni, il proprio benessere, la propria casa.
Ma si può provare a costruirne altri, più inclusivi, partendo dalla constatazione che stiamo vivendo tutti condizioni di vulnerabilità. Dalla paura può scaturire un altro modello di reciprocità, che riconosca come solo la salvezza dell’altro può garantire anche la mia. Il dono (come studiato dal celebre saggio del 1923 del francese Marcel Maus) può essere indicato come il nuovo paradigma teorico e operativo per orientare le relazioni fra le persone. La forza del dono sta nel porsi a uguale distanza dall’interesse e dalla gratuità. Chi dona si aspetta di essere ricambiato, intende instaurare relazioni che prevedano reciprocità e in tal modo si affida agli altri, assumendosi il rischio e l’incertezza di non essere ricambiato. Il dono è così un atto di fiducia nella possibilitò di costruire legami di fraternità, per volgere lo sguardo altrove, fuori da sé”.
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