L’intervista al fotografo Stefano Lista
PESCARA – Dal 7 Dicembre presso l’Aurum, a Pescara, è allestita la mostra fotografica “Il Mondo a Quadretti”: un percorso espositivo unico nel suo genere che si fa portavoce di un’encomiabile iniziativa, quella di portare la fotografia all’interno del carcere.
Il progetto parte dal desiderio di restituire a dieci detenuti la possibilità di esaltare le loro doti nascoste attraverso un corso di fotografia ma, anche, di scoprire forme alternative per riappropriarsi della propria dignità personale.
L’intera mostra è finalizzata alla riflessione, alla sensibilizzazione pubblica anche mediante l’evento “Il Mostro ha paura”: un confronto sulla realtà carceraria e sull’esperienza fatta dai dieci volontari appassionati di fotografia che hanno preso parte all’iniziativa attraverso un video-testimonianza, interventi da parte degli organizzatori e del presidente del consiglio comunale, Antonio Blasioli, nonché alcune interviste ai detenuti, presenti alla serata.
La riflessione si sposta poi attraverso l’esposizione vera e propria, strutturata in due spazi: l’interno, realizzato attraverso l’emulazione di uno spazio labirintico in cui si alternano foto scattate dai detenuti stessi all’interno della struttura, in bianco e nero, e all’esterno di questa, a colori invece. L’intorno, uno spazio aperto in cui si susseguono su colonnette in cartone alveolare – frutto dell’immancabile collaborazione con Cartafatta – gli scatti del fotografo, nonché ideatore della mostra e dell’iniziativa stessa.
È necessario sottolineare come l’intera iniziativa non sarebbe stata possibile senza la promozione e il co-finanziamento da parte della Presidenza del Consiglio comunale di Pescara, il patrocinio del Lions Club di Montesilvano ma soprattutto senza la prodigalità e l’impegno dei due maggiori fautori: l’avvocato Fabio Nieddu, Garante per i diritti delle persone private della libertà personale e il fotografo Stefano Lista che si racconta per noi in questa intervista.
Il progetto è partito dalla collaborazione con il tuo carissimo amico Fabio Nieddu, l’avete deciso insieme, ma l’idea come vi è venuta?
L’idea è venuta ad entrambi in realtà: io avevo il desiderio di regalare qualcosa. Si chiama un po’ “logica della restituzione”: quando ti senti fortunato in qualche maniera senti anche la voglia di restituire. Ad esempio anche nel mio lavoro mi capita di regalare corsi di fotografia a persone che so che non se lo possono permettere. In fondo, dietro c’è il sogno di una società in cui tutti abbiano le stesse opportunità. Per Fabio, il motivo è praticamente lo stesso: lui è garante dei diritti dei detenuti, ci conosciamo da una vita e quindi lui sapeva che con me sarebbe andato sul sicuro proponendomi un progetto simile, io avevo la stessa certezza. Ne abbiamo parlato e l’abbiamo realizzato.
Siete partiti quindi con la finalità di offrire questo servizio a chi ne ha più bisogno, ma allo stesso tempo anche per sensibilizzare l’opinione pubblica o questo è stato un aspetto secondario?
Questo è un po’ il ruolo di Fabio: il garante per i diritti dei detenuti è una figura istituzionale che ha tra i suoi compiti anche quello di sensibilizzare la cittadinanza sul fatto che “da un lato loro si devono preparare a rientrare nella società, dall’altro è la società che si deve preparare a riaccoglierli”. Lo spirito di questo evento era un po’ questo, spiegare che “errare humanum est” … noi l’abbiamo voluto rappresentare nella mostra con le frecce. Giusto e sbagliato, ma anche bene e male. E Bene si abbinava a sbagliato e male con giusto. Il senso è proprio quello: alle volte ti confondi e ti perdi in questo in labirinto.
“La fotografia ha il potere di metterci di fronte all’osservazione di una realtà che non conosciamo e di plasmare il nostro giudizio o pregiudizio della realtà”. Nel tuo caso, con che idea eri partito e che idea avevi alla fine? Hai detto che avevi dei pregiudizi …
Il mio pregiudizio, intanto non era nei confronti dei detenuti, quanto nel carcere come luogo: lo immaginavo il carcere come un centro di torture, estremamente sporco; in realtà si percepisce che non è un hotel, che i disagi sono tanti e i soldi sono pochi, però capisci anche che c’è molta dignità. Girando per le celle ho notato che erano più ordinate della mia camera, tu immagineresti il contrario, una situazione in cui tutto è lasciato a se stesso; invece no, il detenuto è una persona che si cura, che si lava, ha le sue buone abitudini.
Come professionista tieni normalmente questi corsi fotografici: la differenza che hai percepito nel fare questi corsi ai detenuti, rispetto che ai tuoi ragazzi, “quelli di camera con lista”?
Anche qui c’era il pregiudizio, nel senso che ho pensato di fare un corso semplificato, di togliere qualche parte un po’ più tecnica per portarli subito alla parte pratica. Da un lato era giusto così perché ovviamente nei miei corsi faccio un’uscita in cui concentro la parte pratica e lì non potevo fare una cosa del genere – alla torre di Cerrano si è trattato di una parentesi di tre ore – dall’altro, mi sono dovuto ricredere: immaginavo avessero qualche difficoltà a seguirmi sulla parte teorica, in realtà non è stato così. Loro erano molto curiosi, al pari dei miei corsisti, c’era interesse. La differenza è stata la pratica: per noi andare a fare la foto al tramonto significa fare la foto ad “uno” dei tanti tramonti che vediamo, per loro la parola “tramonto” ha completamente mandato in ombra la parola “foto”. Per loro un tramonto fuori dal carcere è qualcosa che vale molto di più della fotografia. Lì mi sono reso conto che l’ambiente era molto più importante della tecnica, della fotocamera, cose a cui in genere badiamo noi che stiamo fuori.
“La fotografia serve a spiegare l’uomo all’uomo e ogni uomo a se stesso” , tieni particolarmente a questa frase, per questa definizione che hai tu di fotografia che ti dedichi – considerando anche le mostre precedenti – a tematiche che sono incentrate sull’uomo, che hanno una finalità sociale e umanistica?
Si, a me piacerebbe che la fotografia fosse profondamente legata a questo aspetto umanistico, tutta la fotografia. In realtà, mi rendo conto che tutta la produzione fotografica odierna è improntata all’aspetto narcisistico o su qualcosa che è l’emulazione di altre cose viste, non ha una logica, un pensiero dietro. Penso sempre che la fotografia di qualità è quella che dice qualcosa di nuovo. Quindi in qualche maniera ho dichiarato guerra al cliché, penso che non si smette mai di imparare cose nuove quando si parla dell’uomo: l’uomo evolve nelle epoche, l’umanità evolve nello spazio e nel tempo quindi c’è una differenza tra quello che accade qui e altrove, in passato e oggigiorno. La fotografia è un mezzo privilegiato per raccontare tutto questo e con gli anni diventa documento, per cui l’importante è se tu con la tua fotografia stai cercando di dare una luce nuova alle cose.
Io mi ritengo un umanista, sono innamorato dell’uomo, delle sue potenzialità, sono convinto che in tutte le persone ci sia qualcosa di buono, poi sono le circostanze della vita, come abbiamo visto anche con questa mostra, che ti portano lontano dal concetto di bene universale. La fotografia è uno strumento: oggi viene molto ridotta alla tecnica e all’attrezzatura, ci sono molte persone che acquistano l’attrezzatura convinti che quello faccia le foto migliori, io di solito dico ai miei allievi “lasciate perdere gli obiettivi e spendete gli stessi soldi in viaggi.” Perché sono i viaggi a fare la buona fotografia, sono quelli che ti fanno crescere , ti spiegano l’umanità e spiegano te a te stesso.
Parlando invece di questa esposizione, l’ultima foto ritrae una chiave nella serratura, non è ovviamente una scelta casuale.
No, neanche il fatto che la foto fosse più piccola delle altre è una scelta casuale. La chiave ha due sensi, uno per aprire e uno per chiudere, con questa ambiguità volevo lasciare allo spettatore la scelta. La cosa che mi piaceva di quella foto è che solitamente vediamo le chiavi appese ai pantaloni delle guardie, in realtà quella chiave è lì, abbandonata. E le due foto precedenti lavorano insieme a quella: non c’è l’uomo. Non c’è presenza umana. Potevano essere il finale di una bella storia se quella serratura viene riaperta per non essere più riaperta in un altro senso, perché poi purtroppo molti detenuti rientrano per la reiterazione del reato. A me piace pensare che quella chiave serva ad aprire.
[Foto gentilmente concesse da Piero D’Andrea, Pierino Di Nicola e Stefano Lista]