PESCARA – Il 26° Scrittura e Immagine
Gabriel García Márquez (1927-2014) è stata la voce dell’America Latina e il testimone di suoi svariati passaggi politici, non solo da scrittore ma anche da giornalista. Il film del documentarista inglese (ma residente a Barcellona) Justin Webster parte dalla cerimonia del Premio Nobel per la letteratura ricevuto dal colombiano nel 1982 per poi ricostruire le diverse circostanze che lo portarono da un villaggio ai confini del mondo alla fama mondiale e alla partecipazione politica.
L’approccio a una materia tanto nota e riconosciuta è antiapologetico e molteplice: a parte i fratelli, che ottemperano alla funzione di ricordare i momenti della vita familiare, ci sono lo scrittore, il biografo, l’amante, il politico di razza, gli amici, i colleghi giornalisti: tutti rievocano “Gabo” dal loro punto di vista, senza affannarsi a celebrarne il genio, piuttosto concentrandosi nel condividerlo e raccontarne anche gli aspetti più quotidiani.
Un notevole sforzo di sintesi in 90 minuti secchi, appoggiati su un repertorio fotografico cospicuo ed estratti puntuali da video interviste dello stesso autore; montati tenendo un ritmo piano, ma costante e in funzione anche della visione televisiva, ma non per questo meno efficaci.
In ossequio allo spirito del suo oggetto, Gabo cerca l’apertura alla conoscenza del mondo interiore dello scrittore, individuandone rapidamente, senza enfasi né pedanterie, le ossessioni dell’opera: nostalgia, solitudine, violenza, amore, illusione umana di controllare il destino. Il ritratto che ne risulta è di un uomo dall’infanzia misteriosa, nel paesino di Arataca (il Macondo della finzione di “Cento anni di solitudine”).
Sarà una ragazza dai buoni principi, Doreen, a costringerlo a mettere ordine nella propria vita sentimentale. L’esordio di Karel Reisz è anche uno dei film-guida del Free Cinema inglese, del quale preannuncia i caratteri fondanti: totale libertà espressiva e sguardo impietoso sulle contraddizioni di una società in cambiamento. Sceneggiato da Alan Sillitoe, e impreziosito dal bianco e nero di Freddie Francis e da un grande Albert Finney.
Jude Quinn è una rockstar geniale e consapevole di esserlo e tallonata da un giornalista che vuole sbugiardarla. Billy the Kid è un fuorilegge del Far West vicino alla resa dei conti. Ma forse, in qualche modo, sono tutti Bob Dylan. Dai primi accordi strimpellati al capezzale di Woody Guthrie al Nobel per la Letteratura conseguito nel 2016, la carriera di Robert Zimmermann, in arte Bob Dylan, è un cumulo di contraddizioni, una continua sfilata di maschere e di trionfi, di scivoloni e resurrezioni.
Un gioco di verità e falsità tale da rendere inafferrabile ai più la sua effettiva identità. “Qual è il vero Dylan?” è la domanda che si è posto inevitabilmente ogni suo fan o semplice conoscitore. Il menestrello folk che lancia sferzate ai maestri della guerra o il poeta rock guidato da visioni lisergiche? Il neoconvertito illuminato dalla luce divina o il cuore spezzato che lascia letteralmente sangue e lacrime nelle sue canzoni struggenti? Fin troppo ovvio rispondere che Dylan è tutte queste cose insieme. Assai meno scontato trasporre le sue gesta al cinema.
Todd Haynes, autore di Lontano dal Paradiso sceglie l’unico modo possibile, riuscendo a rendere Io non sono qui un viaggio tra le canzoni e le maschere di Dylan, che esiste in una dimensione sospesa tra sogno e realtà.
Ingresso libero
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