L'Aquila

San Franco e il Gran Sasso

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L’AQUILA – Roio. Finito l’anno scolastico, aiutavo spesso i miei alla raccolta del fieno. Mi dicevano che era necessario attendere la celebrazione dell’anniversario della morte di San Franco, il 5 giugno, prima di poter procedere al taglio dell’erba. E mentre adunavamo il foraggio, bidente e rastrello in mano, mia madre mi parlava della vita del celebre compaesano e dell’amore che l’eremita nutriva per la natura.

 La lettera del Santo Padre, sulla cura della casa comune, incomincia con una “Laudatio” alla nostra madre Terra, tratta dal Cantico delle Creature. Quale migliore inizio per introdurre una storia che affonda le radici nel XII secolo, prosegue in quello successivo ed estende i suoi insegnamenti fino ai nostri giorni.

Una storia ambientata in un paesaggio che ha come sfondo i monti dell’Appennino centrale e ha come protagonisti i santi Francesco e Franco. Proprio tra la seconda e terza decade del XIII, la vicenda terrena dei due religiosi sembrò quasi incrociarsi. Tommaso da Celano documenta per ben due volte (tra il 1215 e il 1222) la presenza in terra d’Abruzzo del poverello d’Assisi, proprio nel tempo in cui la vita dell’eremita abruzzese volgeva al tramonto.

E’ così antico il legame che unisce “Francesco” alla nostra Regione che una delle prime immagini che lo raffigura è inclusa nel ciclo pittorico dell’oratorio di San Pellegrino, a Bominaco.

“Franco”, più in là negli anni del suo più celebre confratello, possiamo definirlo un proto ecologista che contribuì a spiegarci il ciclo completo della vita, in cui ogni vegetale e creatura vivente percorre un cammino che fa della morte l’occasione per generare nuova vita.

Egli anticipò, in un certo senso, la dottrina francescana. La sua vita fu imperniata nel cercare un dialogo con tutti gli elementi della natura che diverranno, poi, gli strumenti dei suoi miracoli.

Spesso nelle narrazioni dell’eremita ricorrono parole riconducibili all’ambiente ancora selvaggio che lo ospitava. Boschi, neve, sorgenti, spelonche, orsi, lupi, greggi… sono termini che ricorrono e s’intrecciano con la vicenda umana e spirituale dell’anacoreta.

Un’esistenza, la sua, vissuta ai margini della civiltà agropastorale tipica di quel paesaggio alpestre.

Ne conobbe le genti, imparò a vivere di ciò che quei monti gli offrivano e affrontò, con rispetto, le insidie che tale ambiente, ostico ma non ostile, gli riservò.

All’inizio del suo cammino, il giovane Franco scelse di allontanarsi dal luogo in cui crebbe e, dopo vent’anni di vita conventuale, decise di lasciare il monastero di San Giovanni in Collimento.

Con la ripresa dell’industria armentaria quei luoghi stavano cambiando radicalmente. Le selve, che allora, dopo secoli, iniziarono ad arretrare per far posto ai coltivi e ai pascoli, oggi assaporano l’acre “piacere” della rivincita.

Agevolata da una schiacciante burocrazia che contribuisce a rallentare la ricostruzione delle frazioni dell’aquilano, la natura ha pian piano ripreso il suo cammino, fagocitando il cuore del paese natio, Roio Piano. Si è riappropriata della sua casa, del suo piccolo mondo che tempo addietro non ebbero l’ardire di trattenerlo.

La pace interiore e la ricerca di Dio, “Franco” dovette cercarle altrove: nelle Alpi Sabine, dove la natura era ancora incontaminata. La chiesa di Santa Maria Assunta fu il suo punto di riferimento spirituale, gli abitanti di Assergi e delle valli del Teramano furono i suoi più conviti devoti e il Gran Sasso divenne la sua dimora.

Oggi, la dorsale appenninica, che si proietta dal Monte a lui dedicato fino a Passo Portella, rientra tra i Siti di Interesse Comunitario ed è individuata come zona di riserva integrale. L’Ente parco, che comprende questo maestoso massiccio, di cui San Franco fu profondo conoscitore e difensore, dovrà inevitabilmente riconoscere alla figura dell’asceta meriti riconducibili ai suoi insegnamenti, proiettati alla cura delle anime e alla difesa di questo meraviglioso ecosistema creato da Dio.

Sarebbe, dunque, opportuno relegare alla figura dell’eremita Franco un ruolo divulgativo della bellezza e dello spirito ascetico che pare trasmettere tale maestoso paesaggio d’altura, non per caso, definito “piccolo Tibet”, in cui le valli e i monti, accarezzati da alberi, ruscelli, sentieri e animati da una composita fauna, si intrecciano e si rincorrono fin quasi a toccare il cielo. Lasciamo, dunque, veicolare il messaggio che qui la natura è protetta, ma che ha anche bisogno dell’uomo che la valorizzi, contribuendo, attraverso progetti ecosostenibili, a renderla unica al mondo.

(A cura di Fulgenzio Ciccozzi)

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