L’AQUILA – Riceviamo e pubblichiamo una nota a cura di Maria Rosaria La Morgia e Mario Setta sul Sentiero della Libertà/Freedom Trail in vista dell’edizione 2022.
“La libertà è l’essenza della persona umana. Di ogni persona: uomo e donna, ieri e oggi, in pace e in guerra. Un bene di tutti per tutti. Metaforicamente la libertà è un sentiero. Sentiero di montagna, come quello che, nel 1943-1944, attraversava la linea Gustav, muro di separazione tra il Nord e il Sud d’Italia. Era il sentiero che da Sulmona giungeva a Casoli, valicando la Majella, percorso da migliaia di prigionieri alleati in fuga dai campi di concentramento e di giovani italiani che si dirigevano verso il Sud per combattere a fianco dell’esercito alleato.
Come negli anni della guerra, la Marcia Internazionale “Il Sentiero della Libertà/Freedom Trail/Freiheitsweg/Chemin de la Liberté” intende rievocare il passato e proporre la riflessione sui valori di Libertà, Solidarietà, Pace, espressa dalle parole dell’allora Presidente della Repubblica Italiana, Carlo Azeglio Ciampi, nel discorso per la prima edizione del 2001: ‘Oggi un gruppo si accinge a ripercorrere quegli aspri sentieri, i sentieri della libertà. Anch’io fui uno di loro, lasciai Sulmona, lasciai coloro che mi avevano accolto come un fratello, nelle loro case qui a Sulmona. […] Vedo qui oggi tanti giovani, che sono partecipi, con tutta la passione dei loro anni, di questa straordinaria manifestazione… E a voi giovani ripeto l’invito che rivolgeva a tutti gli uomini il vostro grande poeta Ovidio: guardate in alto, rivolgete sempre gli occhi alle stelle; abbiate ideali, credete in essi e operate per la loro realizzazione. Questo è ciò che la mia generazione e la generazione dei vostri nonni vi trasmette, vi affida come messaggio che sono sicuro saprete onorare ed affermare sempre di più’.
Di quel periodo, di quella sua esperienza drammatica, Carlo Azeglio Ciampi aveva scritto il diario giornaliero, dal 24 marzo al 22 aprile 1944. Da quella prima volta, alla quale presero parte anche centinaia di ex-prigionieri veterani che, come Ciampi, avevano affrontato la traversata nel periodo della guerra, l’Associazione Culturale “Il Sentiero della Libertà/Freedom Trail” programma e realizza ogni anno la manifestazione. Studenti e giovani provenienti da varie città italiane ed estere in cammino, per ricordare un passato di terrore e di coraggio, di barbarie e di solidarietà, e vivere un’esperienza in armonia con la natura, con gli altri, con se stessi, sollecitati dalle parole di Piero Calamandrei: «Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani». Negli ultimi due anni, 2020-2021, la realizzazione della Marcia, per motivi di Covid, non ha avuto luogo, ma per l’anno prossimo 2022 è già in programmazione con le varie iniziative. Appena possibile ne saranno annunciate le date.
Il tempo è bello: quindi si dovrebbe finalmente partire. All’una, mentre finiamo di mangiare, (ero ospite da due giorni in casa Cantelmi) delle formazioni aeree inglesi bombardano Sulmona; subito dopo usciamo: hanno mirato alla Stazione ed al ponte sulla strada di Popoli, senza colpirlo; fortunatamente nessuna vittima.
Venuto a sapere che la nostra partenza è anticipata, affretto gli ultimi preparativi ed alle 16,30 raggiungo le casette. Alle 17,15 cominciamo a muoverci: 21 prigionieri e civili pochi dapprima, ma subito un’altra quindicina si aggiunge per i campi. Sono un po’ preoccupato che un gruppo così numeroso possa destare sospetti, dovendo raggiungere la periferia opposta di Sulmona e per questo attraversare due – tre strade e la ferrovia, ancora di giorno.
Infatti un tedesco, dopo che abbiamo attraversato la prima strada, ci viene dietro: io che sono fra gli ultimi mi fermo con altri quattro o cinque civili e mi nascondo dietro una pietraia, mentre il tedesco fermati gli altri cinque e visti i loro documenti, chiede loro del gruppo che si vede in quel momento sfilare sulla ferrovia; alle risposte reticenti dice: “Quelli essere prigionieri inglesi: io avvertire capitano, dare allarme e prendere tutti”. Quindi se ne va.
Mentre a causa di questo incidente i civili fermati dal tedesco decidonoα di desistere dal tentativo, io dopo alcuni minuti di incertezza penso che prima di tutto è il caso di raggiungere il gruppo ed avvertire Alberto, la guida. Così faccio, ma viene deciso ugualmente di proseguire. Sull’imbrunire un altro incidente: mentre siamo costretti a fare un centinaio di metri sulla strada di Campo di Giove sbuca improvvisamente un motociclista tedesco: ci precipitiamo tutti d’un colpo lungo la scarpata della strada e tutto va bene.
Arriviamo ormai a notte sotto a Pacentro e là ci riuniamo con l’altro gruppo, condotto da Mario e Gino. Verso le venti cominciamo la marcia in silenzio e in fila indiana; durante una breve sosta mi sento chiamare e riconosco Carlo ed Oscar Autiero, che hanno deciso di partire proprio poche ore prima. La marcia prosegue assai bene: cielo sereno, poco freddo; saremmo una sessantina, di cui venticinque prigionieri; fisicamente mi sento a posto.
Verso gli ottocento metri comincia la neve; poco dopo Alberto ci invita ad essere particolarmente silenziosi perché siamo vicini a Campo di Giove: infatti verso mezzanotte Carlo Autiero mi addita una macchia scura alla nostra destra e si sente un abbaiar di cani. Continuando la salita diventa sempre più aspra, però la neve è buona; regge assai bene e si sprofonda poco: però qualcuno comincia a scoppiare, cerco di aiutare, insieme ad un altro, un prigioniero che non ce la fa più. Avvertiamo Alberto, ma questo dice che non può rallentare la marcia inquantoché si deve giungere al Guado di Coccia prima dell’alba, pena la sicurezza della spedizione: così quello deve essere abbandonato.
Si progredisce molto lentamente, in alcuni punti dovendo camminare quasi a quattro gambe perché i soli piedi non fanno presa (specie io, che non ho chiodi) sulla neve gelata nei punti più erti; il altri sprofondiamo fino al ventre: mi aiuta molto il bastone con la racchetta. Alle quattro, ormai del 25 marzo, siamo sul Guado, purtroppo il tempo è improvvisamente mutato, il cielo à nuvoloso e si alza un forte vento: ci fermiamo un buon quarto d’ora per attendere i più lenti; mangio un po’ di zucchero e biscotti con neve.
Proseguiamo, ma poco dopo siamo costretti a fermarci, è cominciata una vera e propria tormenta e le guide non osano andare avanti così al buio: attendiamo per più di mezz’ora l’alba sotto un vento gelido e con nevischio, battendo i piedi per non farli congelare; io li sento zuppi: nella salita ho perso il basco e lo sostituisco con una maglia che mi fa da passamontagna.
Con la luce si ha una schiarita e ci rimettiamo in moto; ormai è però da scartarsi l’idea di salire fin sotto monte Amaro per poi scendere a Fara (S. Martino); bisognerà proseguire sul dorso meridionale della Maiella finché il tempo ce lo permetterà e poi buttarsi a valle: speriamo di non fare la fine della spedizione di Domenico (poche settimane prima scesero a valle entro le linee tedesche e furono catturati).
Al primo vallone Alberto comincia inspiegabilmente a scendere: dopo un po’ si ferma imbarazzato; lo raggiungo con Carlo Autiero: ha perso completamente la bussola e io con una vera bussola alla mano gli mostro che seguitando a scendere andiamo senz’altro a finire in mano ai tedeschi. Dobbiamo quindi risalire e dirigerci verso oriente: ora à Mario che ci guida. La tormenta diventa sempre più forte ed ormai non ci abbandonerà fino a destinazione. Oscar Autiero comincia a dire che non ce la fa più: sono le sette circa. La sua crisi si accentua: il fratello ed io siamo costretti a tirarlo a turno, mentre ci distacchiamo dal gruppo. Sono preoccupato che il distacco non si accentui troppo, perché la traccia che il gruppo lascia, poco marcata per il fondo gelato, può venire presto ricoperta dalla neve che fiocca. Fortunatamente il gruppo fa dei numerosi alt: molti sono infatti quelli che non ce la fanno più ed alcuni di essi debbono rimanere abbandonati: poveretti! Rimanere nella neve in quelle condizioni vuol dire la vita!
Ad un tratto Oscar si butta a terra dicendo di non farcela più, che si sente rompere il cuore e conclude: “Lasciatemi, andate pure avanti, io ho tanto sonno, dormo un po’ e poi vi raggiungo!”. Ha la faccia paonazza. Io e Carlo ci guardiamo scoraggiati, lo riprendiamo ad alta voce, lo scuotiamo: io gli verso dello zucchero in bocca e gli faccio mangiare un po’ di marmellata. Riusciamo a farlo alzare e continuiamo a trascinarlo fermandoci si può dire ogni cento metri e dicendogli che ormai si tratta solo di mezz’ora. Così fin oltre le dieci, storditi ed accecati dal vento e dalla neve, riunendoci ogni tanto al gruppo e poi nuovamente perdendo contatto. Fortunatamente pian piano Oscar supera la crisi, lui dice in virtù dello zucchero e della marmellata e cammina quasi senza aiuto.
Al quinto vallone iniziamo la discesa: le guide stesse non sanno neppure loro dove precisamente si vada a finire! Io dalla direzione tenuta e dalla strada fatta penso che al peggio dovremmo essere nel vallone di Taranta e quindi uscire nella terra di nessuno. Arrivati quasi a valle, attraverso una neve che in parte fresca e in parte non gelata regge poco, la tormenta cessa e vediamo sotto noi un paesetto quasi completamente distrutto. A vederci siamo assai mal ridotti: i piedi li sento gelati, specialmente il destro, dato che si è scucito il tallone della scarpa; le mani pure, perché i guanti di lana bagnati dalla neve sono diventati rigidi, ugualmente buona parte della maglia che ho in testa: alle sopracciglia ed ai capelli sulla fronte si è attaccata la neve che poi si è ghiacciata: non posso toglierla, altrimenti strapperei tutto.
Che il paese sia Taranta viene riconosciuto solo mentre lo raggiungiamo: non si vede anima viva. Ci fermiamo alcuni minuti sulla strada rotabile, poi entriamo nel paese e ci viene incontro tra la nostra gioia un tenente indiano. Ce l’abbiamo fatta! L’indiano dice che il paese è completamente distrutto ed evacuato dai tedeschi che si trovano a neanche un chilometro (ce l’abbiamo fatta proprio di misura!); è zona neutra. Mentre arriva una pattuglia italiana di volontari che ci ha visti scendere dalla montagna proseguiamo a piedi per Lama dei Peligni, dove arriviamo stanchi, ma felici, alle quindici circa.
Purtroppo sette prigionieri e tre italiani sono rimasti per strada. Attendiamo presso il locale comando inglese ed alle diciotto due furgoncini ci portano a Fara San Martino, dove dovremo trascorrere la notte. Delusione! Non letti caldi e morbidi come ci eravamo sognati durante il cammino, ma siamo costretti a passare la notte in due stanze in venticinque circa, piantonati da due inglesi: mangiare un quarto di scatoletta con biscotti; per fortuna ho qualcosa con me”.
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